Emilia Santoro
In memoria di un maestro

De Simone, lo sciamano

Ricordo di Roberto De Simone, scomparso quasi in silenzio qualche giorno fa. Un. grande artista che, con il suo teatro, ha saputo decodificare il mito secolare di Napoli

Roberto De Simone se n’è andato in silenzio, si potrebbe dire. Ma non è così. Abita ancora le trame della nostra arte, vive nell’immaginario collettivo, si nasconde nei suoni, nei riti, nei gesti che ha saputo custodire e rinnovare.

Lo incontrai per la prima volta alla fine degli anni Novanta. Era in teatro, in piedi al centro della platea vuota. Si voltò al rumore dei nostri passi. Un amico, con voce bassa, mi sussurrò il suo nome all’orecchio. Rimasi immobile, a distanza, per osservarlo. Mi sembrò già vecchio, anche se non lo era davvero: le spalle sembravano stanche e sorrise a labbra strette per nascondere i pochi denti.

Intorno alla sua figura si erano intrecciate leggende: un carattere difficile, chiuso in una casa-museo, immerso nella solitudine… Ma la verità è che era un uomo scomodo, un resistente. Criticò le istituzioni culturali, denunciò il clientelismo politico, rifiutò il compromesso artistico e intraprese una battaglia epico-poetica, per difendere una cultura viva, popolare, profonda, minacciata da un passaggio verso un teatro sempre più appiattito sul testo, sull’intrattenimento, sul modello “defilippiano”. Mentre Eduardo codifica Napoli in forma drammatica, De Simone la decodifica attraverso un teatro che non rappresenta ma evoca. Eduardo guarda la città con l’occhio del moralista disilluso; De Simone la guarda con l’occhio del mitologo e del musicologo, alla ricerca della trascendenza popolare.

Nonostante queste divergenze profonde, i due artisti si stimavano. De Simone ha collaborato alle musiche di alcune opere di Eduardo, tra cui De Pretore Vincenzo, segno di un riconoscimento reciproco, pur nelle differenze. Se Eduardo era il narratore del presente, De Simone è stato il custode del passato che ancora vive sotto la superficie del presente stesso.

Ma il suo amore più grande fu Viviani. Ne studiò l’opera, ne colse l’essenza. E in uno dei suoi scritti affermò: «Viviani non racconta Napoli, Viviani è Napoli. È voce, corpo, mito e ferita. È un archivio vivente prima che l’archivio stesso si costituisca».

Il nome di De Simone, la sua voce, la sua visione rimangono impressi nella memoria culturale del nostro Paese come un’eco antica e potente. Compositore, regista teatrale, drammaturgo, etnomusicologo e instancabile indagatore delle radici, è stato molto più di un intellettuale: uno sciamano della memoria, un poeta della tradizione, un artigiano del rito, un ricercatore delle origini da tramandare in linguaggi futuri. Nella sua lunga carriera ha intrecciato una pluralità di saperi e linguaggi, con l’obiettivo di riportare alla luce la saggezza sommersa della cultura popolare del Sud Italia. Lontano da ogni folklore di maniera, ha scavato nei simboli, nei canti, nei racconti e nei gesti per svelarne il significato profondo, arcaico, universale.

Dopo gli studi al Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli, dove si diplomò in pianoforte e composizione, De Simone si affermò come compositore classico. Ben presto però il suo sguardo si volse altrove: verso i canti di lavoro, le tammurriate, le villanelle, i cunti, i suoni delle feste religiose e i lamenti funebri. Non si trattava solo di raccogliere e trascrivere, ma di ridare corpo e voce a un sapere collettivo spesso dimenticato o disprezzato.

Il suo lavoro di ricerca sul campo fu pionieristico. Fondò negli anni Sessanta la Nuova Compagnia di Canto Popolare, gruppo musicale che riportò alla luce brani di tradizione orale campana e li fece risuonare sui palchi di tutta Europa, dimostrando che la cultura popolare poteva essere raffinata, colta e rivoluzionaria.

Nel 1976 De Simone firmò quella che è forse la sua opera più celebre: La Gatta Cenerentola, riscrittura della fiaba seicentesca di Giambattista Basile. Non una semplice rivisitazione, ma un capolavoro teatrale in cui si mescolano canto, recitazione, musica antica, linguaggi arcaici e simbologie mediterranee, un’opera che cambiò il volto del teatro musicale italiano e che rappresenta ancora oggi un esempio di altissimo artigianato teatrale. Ma il teatro per De Simone non è mai stato un fine: è stato un mezzo per compiere un viaggio nel mito e nella coscienza collettiva, per evocare riti dimenticati e renderli vivi nell’attimo scenico.

Nei suoi studi e nelle sue opere – da Mistero napoletano a Stabat Mater, da La Lucilla Costante fino alle grandi messe in scena popolari – ha sempre indagato la tensione tra il sacro e il profano, tra il dolore e la festa, tra la morte e la rinascita. Il suo sguardo era visionario, ma sempre radicato in un terreno concreto, in una Napoli mitica e reale al tempo stesso.

Ha diretto il Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli e durante il suo rettorato volle istituire la Cattedra di Jazz, affidandola a Bruno Tommaso. Da questa iniziativa nacque l’Orchestra Jazz a Majella. L’elenco delle partecipazioni eccellenti è molto lungo, secondo i crediti dell’album Lettere da Orsara, i membri dell’orchestra includevano: ​Michele Montefusco – chitarra acustica, Giovanni Bardaro – sax alto, Gaetano Maria Palumbo – sax baritono, Luciano Nini – clarinetto basso, Enzo Nini sax tenore, Giovanni Amato – tromba, Giovanni Francesca – chitarra elettrica, Pietro Iodice – batteria, Domenico Andriani – contrabbasso, Bruno Tommaso – contrabbasso, direzione e composizione​. Inoltre, l’album ha visto la partecipazione di artisti come: Maria Pia De Vito – voce, Vittorino Curci – testi e lettura, Patrizia del Vasco – voce.

Questo ensemble rappresentava la volontà di mantenere viva la tradizione coniugando la musica jazz con le radici culturali napoletane.

De Simone ha scritto anche libri fondamentali per l’etnomusicologia e ha insegnato a intere generazioni di artisti a guardare al passato non come un archivio, ma come un corpo vivo da interrogare.

La voce di Roberto De Simone continuerà a risuonare nei cori polifonici delle processioni, nelle parole dei cantastorie, nella musica delle nuove generazioni che si ispirano alla sua visione, nelle scuole dove si riscopre la tradizione come forma di resistenza culturale.

Ha insegnato che l’arte non è mai separata dalla storia, che ogni canto ha una memoria, e che ogni gesto popolare è un linguaggio da decifrare. Il suo lavoro ha ridato dignità a una cultura che stava scomparendo sotto l’omologazione.

Se ne va senza clamore e con un sogno non realizzato: un Museo di Arti e Tradizioni della Campania che voleva fosse intitolato a Ernesto De Martino, storico delle religioni, antropologo ed etnologo meridionalista italiano.

Il legame ideale con Ernesto De Martino non fu un rapporto diretto, ma una profonda consonanza intellettuale e spirituale. De Simone trovò nell’opera di De Martino una guida invisibile, un orizzonte critico da attraversare con la sua sensibilità artistica.

De Martino, con opere fondamentali come Il mondo magico, La terra del rimorso e Sud e magia, aprì uno squarcio nuovo sull’anima meridionale, legandola a riti arcaici, canti di lutto, forme sincretiche di religiosità, superstizioni e “magie” come strumenti di resistenza esistenziale.

De Simone ne raccolse l’eredità sul piano sonoro, teatrale, rituale: dove De Martino analizzava il tarantismo, i pianti funebri, le processioni, De Simone ne ricreava le atmosfere nel teatro musicale, nei canti, nei suoi spettacoli corali e visionari come La Gatta Cenerentola o Mistero napoletano.

Entrambi cercavano lo stesso cuore oscuro e vitale del Meridione: il momento in cui il rito salva l’individuo dal caos, in cui la memoria collettiva diventa forma e canto.

Se De Martino lo fece da antropologo-filosofo, De Simone lo fece da artista e da uomo di teatro. Ma parlavano la stessa lingua: quella del sacro, del mito, della ferita storica che si trasforma in canto.

De Simone ha spesso dichiarato di sentirsi debitore al lavoro di De Martino, pur percorrendo un sentiero autonomo. Più che allievo, ne fu erede spirituale. Dove De Martino portava la scienza, De Simone portava la musica. E insieme, senza mai incontrarsi fisicamente, costruirono una mappa poetica e critica dell’anima di un Sud arcaico, ma ancora vivo sotto la superficie della modernità.

Grazie a Roberto De Simone, la voce profonda della nostra terra continua a cantare, come una nenia antica che non smette di raccontare chi siamo. E a lui dedico questa falalella, che scrissi proprio nel periodo in cui lo incontrai, dopo una ricerca sulle ninne nanne del Sud Italia:

Tai tai tai
Chist’auciello m’arrubaie
Lu nascosero ‘int’ a lu traturo
Insieme a lu muccaturu
Po’ dint’ a lu cascione
Là ce steva ‘u zimarrone
Ma je lu truvaie ammucciato
Sotto nu lietto antico
Si vuje non lu credite
Venite a la casa ché lu vedite

Oggi che il suo corpo non è più tra noi, resta intatta la sua voce, che non ha mai cercato il consenso, non ha mai ceduto al folklore da cartolina, ma ha scavato nei riti, nei simboli, nelle ferite della nostra terra. Roberto De Simone ci ha insegnato che la cultura non è ornamento, ma resistenza; che il canto popolare non è nostalgia, ma coscienza viva; che ogni gesto antico può ancora parlarci, se abbiamo il coraggio di ascoltare. La sua opera resta come una mappa preziosa per non smarrirci. Un’eredità che vibra nelle corde di chi sa che il futuro si costruisce con le voci del passato.

E mentre la sua figura si allontana nella luce del mito, il Sud che lui ha raccontato continua a cantare — tra le pietre, nei vicoli, nei cuori. Con la stessa nenia dolce e ribelle, con la stessa falalella, che oggi gli ritorna in dono.

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