Daniela Matronola
A proposito de "L'angolo cieco"

Poesia dell’invisibile

Il rapporto tra vita reale e nostalgia della vita vissuta è al centro della nuova raccolta poetica di Paolo Del Colle (come nel film "Nonostante" di Valerio Mastandrea

Ammetto che questa recensione non è univoca: è senza dubbio dedicata alla lettura attenta dell’ultima raccolta in ordine di tempo pubblicata da Paolo Del Colle, ma curiosamente tira dentro anche un film, Nonostante, diretto e interpretato da Valerio Mastandrea.  Il punto di contatto tra L’Angolo Cieco (Amos Edizione, Collana UNICA diretta da Arnaldo Colasanti, 88 pagine, 12 Euro), vero oggetto di questa analisi, e il film di Mastandrea è: tematico, l’invisibilità; situazionale, uno stato che vengo a definire col dovuto tatto; localistico, una certa romanità.

L’angolo cieco di cui Paolo Del Colle ci illustra dettagli caratteristiche e insidie in questa raccolta è contemporaneamente una cuna e una scomparsa – la sua dominante è, come anticipavo, l’invisibilità, che ripara e mette a rischio nello stesso momento.

Il dettato che Del Colle adotta qui come già nella precedente produzione è tutto intonato a diminuzione, a sordina, anche se l’aver scritto, il poetare cui De Colle non rinuncia, rivela l’obbedienza a un preciso mandato etico insopprimibile. Il dettato di questo piccolo libro incandescente abolisce le maiuscole nonostante mantenga i punti fermi, cioè una punteggiatura che segue l’andamento classico. È un dettato che dopotutto rispetta lo stilema dell’oratorio con un Prologo, tre atti centrali (Voce comune, Monodia, Tra sé) in cui la doppia voce che a ondate si anima è più uno sdoppiamento che un dialogo, e uno Stasimo finale che (come accadeva nella tragedia greca) chiude solo per riaprire, per rilanciare, ed è voce corale – allora davvero ciò conferma che la voce ascoltata per tutto il libro/oratorio è IO e SÉ. C’è un IO che vive anzi ha vissuto, e c’è un SÉ che ora tutto riconsidera e lo ricapitola, e ciò accade perché si è aperta una specie di area neutra, un angolo cieco nell’esistenza, in cui tutto è stato ed è ancora nella fresca memoria però già non è più e forse non sarà mai stato.

Testimoni muti eppure partecipi di questo nostro passaggio, non sempre innocuo, sono gli eucalipti che danno profumo alla nostra memoria, e le cicale estive che friniscono all’impazzata dando un sottofondo insistente, costante, fastidioso anche se non sempre rilevato dal nostro udito viziato dal frastuono del vivere; e poi i gatti, con la loro bellezza seducente, con la loro silenziosa eleganza, con la loro distrazione e la loro presenza/assenza; forse anche un cane o due, che per un tempo breve hanno devotamente accompagnato questa esistenza, l’individuo specifico che qui incontriamo (l’IO) e il degno rappresentante, l’everyman, del nostro genere (il SÉ), ora convocati in questa specie di duologo prima della scomparsa.

Ecco, appunto, l’invisibilità di cui Paolo Del Colle ci dà conto è una deriva oggettiva, lo status dell’esistente quando chi esiste non lotta per rubare una centralità e non smania per essere inquadrato o per raggiungere lo spot di scena in cui diventare egoisticamente visibile, visto a tutti i costi.

In Nonostante Valerio Mastandrea sviluppa una storia d’amore tra due che abitano una specie di terra–di–nessuno, la pre-morte, che può avere due esiti opposti, e può dividerli, e non c’è amore che tenga. In quel limbo, che però offre un’estrema comunicazione tra anime, c’è chi “torna su”, dunque torna al corpo e dimentica completamente ciò che ha pur vissuto, e chi “va via” una volta per tutte, spazzato da un vento, che è una specie di corrente tesissima a cui è vano opporre resistenza. Come spiegarlo a chi è rimasto? Si dovrà cominciare per forza dalla fine.

Ecco, mi viene da dire che anche in questo recente L’angolo cieco, come in tutta la sua letteratura fin qui, Paolo Del Colle scriva sull’onda di una martellante domanda, la overwhelming question del Prufrock di Eliot, che però non è solo un’invocazione erotica come segnale dell’esser vivi, ma è piuttosto la domanda: Dove finiamo tutti? O dove siamo tutti già finiti?

È il contraltare, questo, credo, al culto o, peggio, all’idolatria del nostro tempo per la visibilità. Paolo De Colle ci fornisce senza alibi la notizia della nostra oggettiva marginalità, e della nostra inesorabile collocazione in un angolo cieco, in una porzione di spazio che nessun dispositivo può captare visivamente, del nostro destino di esistenze o vite a scomparsa. Le esistenze comuni sono intercettate e tenute prigioniere in queste aree di invisibilità che sembrano poter spargere loro addosso un’aura di irrilevanza ma l’apparente esclusione da una vita da palcoscenico è anche una condizione di libertà e di agilità di manovra, magari di concentrazione più attenta sul senso di esistere, a dispetto di un possibile contagio della malinconia, che però (ci insegnano gli Inglesi preferendola alla tristezza) ci rende, per esempio, pronti ad aggrapparci alla tovaglia trascinando giù briciole e stoviglie mentre precipitiamo nel prevedibile (atteso) nulla che ci sta aspettando lì in fondo a fauci aperte.

Quanta vita dunque anche in quel precipizio.

Quanti incontri, e presenze essenziali.

Quanta immediata nostalgia del tutto, mentre ancora lo esploriamo nelle mosse finali, o nei riti di fine.

Ebbene, con romana pacatezza smagata, Paolo Del Colle qui, come nel film Nonostante l’ottimo Valerio Mastandrea, ci parla soprattutto della tangenza inevitabile tra la vita piena e anonima e la memoria intrisa di nostalgia o anche solo di mancanza di quella pienezza sfumata e adesso ripiegata sul ricordo attraverso estreme spie sensoriali: il campanello alla porta, il tintinnio delle chiavi di casa, l’animarsi stanco di tutto quel corredo di oggetti che non sono, banalmente, “la roba” di verghiana memoria che avaramente ognuno vuol portare di là con sé, ma sono i segni del nostro passaggio, sono i significati delle nostre vite e di tutte le fasi che le nostre vite hanno via via attraversato.

Quegli oggetti, quei suoni, quei profumi siamo noi, ed è arrivato il momento di farci i conti per trarre una conclusione elementare quanto preziosa, Siamo tutti niente, scriveva qualcuno, un niente marginale, anonimo, soprattutto comune, quanto mai ordinario, ciascuno però di per sé non solo o tanto conduttore di un volume d’aria che occupa uno spazio nel mondo (che è già di per sé origine di dignità) ma creatore di un mondo che prima non c’era e ora c’è dunque oramai c’è stato, nel bene e nel male.  Tutti, se riusciamo a farcene capaci, occupanti per qualcun altro di un angolo cieco che però non ha potuto azzerarci come figure viventi.


La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini.

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