Ida Meneghello
Diario di una spettatrice

Lo sguardo di Zingaretti

Luca Zingaretti debutta nella regìa con un film "onesto" (e molto ben recitato dal protagonista Gianmarco Franchini) sul disagio giovanile tratto da un romanzo di Daniele Mencarelli

«Non è un risveglio. È un sussulto. Ogni mattina mi ritrovo dritto sul letto, con l’affanno in gola, il cuore accelerato, il corpo preso da un tremore continuo, un delirio di movimenti. “Non ricordo nulla”. È la frase che mi ripeto tutte le mattine. “Non ricordare nulla”. È il mio obiettivo della sera».

È l’incipit del romanzo di Daniele Mencarelli La casa degli sguardi, il libro che ha convinto Luca Zingaretti a cedere alla tentazione che prima o poi arriva per tutti gli attori: diventare regista. «Leggendo questo libro ho capito che era il soggetto giusto per passare dietro la macchina da presa», ha raccontato Zingaretti presentando in anteprima al pubblico del cinema Modernissimo di Bologna la pellicola che ha lo stesso titolo. «Pensavo di fare solo il regista, non avevo previsto di recitare nella parte del padre. Invece gli altri sceneggiatori che l’hanno adattato con me [Stefano Rulli e Gloria Malatesta] lo davano per scontato. Così mi sono ritrovato in questo doppio ruolo».

Com’è la prima regia di Zingaretti? È onesta, lineare, prevedibile, il ritmo delle riprese è riflessivo, direi prudente. Ma è un esordio fortunato perché azzecca tutto il cast, e questo non era scontato: evidentemente l’esperienza e l’empatia dell’attore di lungo corso hanno avuto il loro peso, a cominciare dalla scelta del protagonista Marco, interpretato dal ventitreenne Gianmarco Franchini, cranio rasato, la gestualità schizofrenica dell’alcolizzato e gli occhi spalancati sul dolore del mondo.

Una premessa prima di entrare nella storia. C’è chi ha associato La casa degli sguardi al film recente delle sorelle Delphine e Muriel Coulin Noi e loro, interpretato da un magistrale Vincent Lindon: la pellicola francese raccontava la storia di un adolescente radicalizzato nei gruppi violenti dell’estrema destra e di un padre che cerca di salvargli la vita. In realtà il libro di Mencarelli e il film di Zingaretti che molto lo rimaneggia, non hanno il baricentro nel rapporto conflittuale tra padre e figlio che certamente esiste, ma resta sullo sfondo. Piuttosto sono presenti con grande evidenza le analogie con un altro romanzo dello stesso Mencarelli, diventato famoso grazie a una serie tv Netflix giunta alla seconda stagione: Tutto chiede salvezza. C’è una doppia connessione tra le due storie: l’identità del protagonista – nella serie e nel film è un ventenne con problemi di dipendenza e tuttavia dotato di una sensibilità estrema che gli fa scrivere poesie – e l’ambientazione ospedaliera di entrambi i libri. Ed è proprio questo contesto specifico il connotato fondamentale della narrazione: un ambiente corale affollato di persone che incontrano quotidianamente il dolore e perciò sono pronte ad accogliere il giovane nonostante tutto. È in questo mondo che il protagonista troverà un’altra famiglia, scoprendo che la sofferenza degli altri è uguale alla sua e può salvargli la vita. 

La “casa degli sguardi” è l’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, dove Marco entra dopo un incidente che segna il punto di svolta della sua vita randagia, assunto dalla cooperativa sociale che effettua le pulizie nei reparti. L’impatto con quella realtà è duro e difficile il confronto coi compagni di lavoro, il giovane non sopporta gli orari e la disciplina, sul certificato del suo ultimo ricovero il medico ha scritto: abuso d’alcol come dipendenza di ripiego da sostanze stupefacenti. «È un destino più che una malattia», confessa nel romanzo. «Se gli altri sorridono alla nostalgia io piango, il ricordo è un veleno che non so dosare, mi brucia da quando ero un ragazzino che voleva tornare indietro, al tempo di una felicità remota come di un’infanzia mai vissuta».

Nell’alcol Marco annega la perdita della madre (e qui la sceneggiatura si differenzia nettamente dal libro dove la madre è un personaggio ingombrante), con la bottiglia in mano la rivede recitare con lui bambino la poesia di Gianni Rodari “Sulla luna”, arrivato a ventitré anni Marco è ancora sull’altalena che ripete quei versi dedicati ai sognatori. 

Sarà attraverso lo sguardo di un bambino sconosciuto che richiama la sua attenzione bussando sui vetri della finestra della sua camera e che lui ha soprannominato “Tok-tok”, che Marco scoprirà che il dolore non lo separa dagli altri, al contrario è un legame più forte di qualunque solitudine. La sua verrà vinta dagli sguardi dei bambini, ma anche dal sorriso dei suoi compagni di viaggio che lo accolgono in una nuova famiglia: il burbero Claudio, Stefano che parla alle piante, Paoletta che lo abbraccia, il sardo Luciano che lo vuole amico. È questo il luogo della salvezza, non il rapporto col padre tranviere che lo controlla come un cane da guardia e che Marco tornerà a cercare solo al termine del film, finalmente riconciliato col suo passato. 

La scelta di Zingaretti di esordire alla regia con La casa degli sguardi paga inevitabilmente il prezzo del déjà vu alla serie televisiva firmata da Francesco Bruni Tutto chiede salvezza: troppo simile l’ambientazione ospedaliera (là il reparto psichiatrico dove avviene il TSO, qui il pediatrico Bambino Gesù), praticamente identico il protagonista che ricalca la vicenda autobiografica dello stesso Mencarelli. A differenziare il film è un ritmo più lento che sembra cercare gli interstizi dove la poesia si infiltra nella prosa dell’esistenza (e non sono solo i reading che Marco frequenta e dove si cita a sproposito Wislawa Szymborska). Ma soprattutto c’è l’empatia di Zingaretti per gli attori che trova in Franchini lo sguardo di Marco, il sognatore rimasto sulla luna, che un giorno in un bar, ormai pronto a perdersi in una sequenza infinita di shot, guarda la felicità di una madre col suo bambino e finalmente si arrende alla meraviglia della vita. 

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