Giuliana Vitali
In margine a un convegno

Il mondo dentro

Perché anche una rivista letteraria dovrebbe raccontare il carcere? La risposta è in questo intervento fatto di parole, realtà e immagini

L’11 marzo, presso il III Municipio di Roma, l’editore Gioacchino Onorati ha organizzato un Convegno sulle Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) che ha visto la partecipazione di numerosi loro esponenti – anche da remoto – alcuni enti istituzionali della città, avvocati, medici, psichiatri, artisti che hanno raccontato la condizione carceraria in Italia. Un incontro necessario, di confronto per chi lavora all’interno delle carceri e soprattutto con i detenuti più fragili, pazienti con malattie psichiatriche. Proprio l’anno scorso noi di Achab abbiamo dedicato un volume sull’argomento. Oggi, il nostro contributo al convegno è avvenuto attraverso un video-racconto con la collaborazione della Rems di Rieti e del direttivo dell’Asl, dal titolo L’extrema ratio. Ma perché una rivista letteraria dovrebbe parlare di carcere?

Tra i ruoli di una rivista letteraria c’è quello di accogliere una narrazione corale fatta di voci diverse tra loro, spesso apparentemente discordanti e che portano a interrogarsi su sé stessi e sulla realtà, insinuano dubbi, creano un certo spaesamento mettendo in discussione anche le proprie idee. Tutto questo mescolando le varie forme d’arte con i loro linguaggi e interagendo con chi legge e interviene agli incontri sul territorio. È perciò uno strumento per dare vita a dibattiti.

In questo volume dal titolo “Gli occhi di Argo|sul carcere” abbiamo avuto la necessità di esplorare e indagare un tema complesso, appunto quello delle carceri con uno sguardo anche verso paesi come l’Africa o la Turchia. Un’urgenza che nasce dalla negazione e violazione dei diritti, di cui si parla e scrive tanto – e spesso in termini di pietas cattolica – ma l’approfondimento più radicale resta confinato in “dibattiti di nicchia”. Tema civile ancora più impopolare in Italia quando si parla di superamento del sistema carcerario perché ormai dovrebbe essere chiaro a tutti che ha fallito. Come fu già per la tortura o la pena di morte, la storia deve andare avanti. “La risposta al delitto non può che essere un intervento volto a educare a una libertà consapevole attraverso la pratica della libertà. Questa deve essere la regola. Nei limitati casi in cui questo non sia immediatamente possibile, solo eccezionalmente, si possono prevedere risposte di tipo custodiale nei confronti della criminalità più pericolosa, ma in quanto extrema ratio a precise condizioni” (dal Manifesto del Movimento No Prison).

La condizione carceraria, di reclusione ha sempre trovato espressione politico-sociale nella scrittura, nell’arte in genere soprattutto attraverso la filosofia, la letteratura, la poesia. Anche le illustrazioni presenti in questo volume di Achab, per esempio, hanno un ruolo ben preciso. La copertina è stata creata da Murat Başol, illustratore turco. L’artista partecipa nel 2017 a uno dei più discussi processi sulla libertà di stampa in Turchia: il Processo Cumhuriyet (Repubblica), giornale storico di opposizione al Governo di Erdogan. Nell’aula di tribunale, essendo vietato l’utilizzo di telecamere, cellulari e registratori, un gruppo di illustratori decide di disegnare tutto quello che accade durante le giornate del processo per poi divulgare le immagini fuori. Altre illustrazioni che accompagnano gli scritti sono state realizzate da alcuni detenuti in Italia che hanno partecipato a un progetto artistico a cura dell’Associazione Artisti Dentro.

Bruna Iacopino – alias Senzarumore – illustra invece la poesia del poeta e filosofo serbo statunitense Charles Simić, tra i rappresentanti del minimalismo, che scrisse per noi mentre era in casa di cura, pochi mesi prima che ci lasciasse.

In relazione al linguaggio e all’impegno letterario-civile penso ai racconti mitologici – non a caso questo volume porta il titolo de “Gli occhi di Argo”, figura leggendaria di carceriere dai cento occhi; ai filosofi come Platone – l’uomo recluso che riesce a vedere solo le ombre di una realtà al di fuori della propria condizione -; alla Letteratura del Novecento: Sartre con il racconto “Il Muro” – l’attesa di un uomo che a breve sarà giustiziato -, Kafka con “La Colonia penale”, “Il Processo” o anche Janet Frame con “Dentro il Muro” raccontando le condizioni delle donne recluse in manicomio. Insomma, di esempi ce ne sarebbero davvero tanti. È chiaro che la Letteratura contenesse in sé anche la denuncia, la presa di posizione su temi sociali-politici da parte di molti scrittori e intellettuali, sui diritti umani. E non solo in modo diretto ma anche senza predeterminazione emergendo inevitabilmente dal racconto.

Restando in Italia vorrei prendere come esempio alcune riviste letterarie del Novecento impegnate sul fronte letterario, artistico, d’avanguardia, civile-politico. Pensiamo a “La Voce” fondata da Giuseppe Prezzolini, “L’Ordine Nuovo” fondato da Gramsci, “Politecnico” da Elio Vittorini, “Quindici” da Alfredo Giuliani e dal Gruppo ’63 in attività durante le contestazioni del 68, “Alfabeta” del poeta Nanni Balestrini. Ma voglio ricordare anche “Solaria” fondata da Alberto Carocci, Eugenio Montale, Giacomo Debenedetti e tanti altri. Nata in contrapposizione a “La Ronda” fondata da un gruppo di intellettuali tra i quali Vincenzo Cardarelli e che, a differenza delle altre riviste, si proponeva di rendere l’arte libera e autonoma dalla politica ma cessò la sua attività “guarda caso con la presa al potere del fascismo” diceva con sarcasmo Pasolini. Chiare furono anche le parole di Eugenio Montale in un’intervista a cura di Giuseppe Cassieri: “La rivista morì appunto quando all’alba del fascismo occorreva un impegno molto diverso e che forse i rondisti non si sentivano in grado di affrontare e che pochi, con diversa fortuna o sfortuna, affrontarono”.

Il ruolo della responsabilità civile, sociale dell’intellettuale nutriva l’idea di missione in difesa dei valori umani, cosmopolitani, dei diritti (come ci suggerisce Bauman nel saggio “La decadenza degli intellettuali”), ma con l’epoca postmoderna l’intellettuale diventa puro interprete della società fino ad arrivare a un’ulteriore fase che supera l’intellettuale traduttore. La cultura, dice Bauman, è diventata una merce del mercato libero che produce profitto. Gli intellettuali difendono i propri interessi professionali: un attore difende il teatro, un professore la scuola, un regista il cinema e così via.  Ma chi si occupa degli ideali e dei diritti condivisi dalla società?

A proposito di intellettuali engagé, vorrei soffermarmi sulla scrittrice e poetessa Fabrizia Ramondino – morta nel 2008. Tra le sue opere alla fine degli anni Novanta c’è il romanzo-reportage dal titolo “L’Isola riflessa” ambientato a Ventotene. Nel suo racconto, se da una parte l’isola sembra essere quasi “schiacciata” dalla presenza ingombrante del carcere di Santo Stefano – definitivamente chiuso nel 1965 – dove furono detenuti molti dissidenti politici tra cui per esempio Sandro Pertini, dall’altra è una presenza ormai assorbita dal paesaggio nell’abitudine visiva.

Il carcere di Santo Stefano fu una delle prime strutture penitenziarie costruite seguendo il modello del Panopticon: un’architettura circolare, ad anelli, progettata in modo tale che da una torretta centrale all’interno si potesse controllare ogni angolazione del carcere, ogni cella e perciò ogni detenuto. Ma il prigioniero non era nella possibilità di vedere il suo osservatore e né i propri compagni rinchiusi nelle altre celle separate tra loro mediante muri laterali. E l’idea progettuale fu del filosofo Jeremy Bentham che paradossalmente nell’Ottocento fu tra i rappresentanti di un pensiero radicale incentrato sui diritti dell’uomo.

Il panoptismo: isolamento, controllo dell’individuo, soppressione della libertà ma soprattutto disciplina, invisibilità del potere per riportare a una certa docilità, a un ordine le persone da correggere, da normalizzare, da rendere utili alla società – parliamo anche di individui con diagnosi psichiatriche –  e che prende forma attraverso l’architettura di un edificio non solo applicata al carcere ma anche a una scuola, a un ospedale, a una fabbrica, uscendo perciò anche fuori del concetto di pena adattandosi all’interno della società e illuminante è proprio il racconto critico che ne fa Foucault nel saggio “Sorvegliare e punire”.

Alcune strutture in Italia ispirate al Panopticon sono state chiuse – come il Carcere di Santo Stefano appunto – mentre alcune tutt’oggi sono in funzione, il Carcere di San Vittore per esempio.

Il recente Decreto Legge n. 124/2023 del Governo Meloni prevede la costruzione di nove Centri di Permanenza e Rimpatrio per i migranti “circolari e a moduli” ispirata al principio del Panopticon  rimarcando perciò quel potere totalizzante e di ossessivo controllo da parte di uno Stato sugli individui; di difesa sociale; di quella funzione “depurativa” che porta a rinchiudere in istituti coloro che vengono considerati “improduttivi” e di cui una società capitalista deve sbarazzarsene perché anzi… la danneggia fino a smascherare le sue criticità. Allora mi domando ancora una volta dov’è la nostra forza del passato, in che direzione corre la storia e quando acquisiremo la consapevolezza dell’atrocità, l’inutilità e il fallimento del sistema di reclusione che non migliora affatto la società e che l’unica alternativa razionale può essere solo la sua abolizione.

Suicidi in vertiginoso aumento, condizioni igienico-sanitarie mediocri, strutture fatiscenti, sovraffollamento, alta recidiva, stigmatizzazione, privazione della libertà, negazione degli affetti, della sessualità e della dignità, basso valore della vita. E mi viene da pensare al sistema carcerario di alcuni paesi nordici definiti di grande umanità, rispettosi dei diritti civili, così all’avanguardia che qualcuno – superficialmente – li paragona ad alberghi di lusso. Ma i primi movimenti abolizionisti nascono proprio lì, in quelle terre, in Norvegia per esempio. Ricordiamo il sociologo e intellettuale Thomas Mathiesen che è stato uno dei più grandi rappresentanti e pensatori del movimento. Ideò un vero e proprio piano per l’abolizione del carcere da completarsi gradualmente nell’arco di un ventennio.

Argo Panoptes, carceriere dai cento occhi. Ma l’accezione cambia: siamo noi a esplorare da diverse angolazioni ciò che riguarda la condizione carceraria, attraverso la continua interazione di linguaggi critici ed espressivi fino a poter forse raggiungere contezza che la presa di posizione verso i diritti civili riguarda la società tutta, nessuno ne è estraneo.

Il link del video è https://youtu.be/QZH4fCUjpOg


La fotografia accanto al titolo è di Tiziana Cavallo.

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