Ida Meneghello
Diario di una spettatrice

Guadagnino, l’imitatore

Più che pieno di citazioni (da Spielberg a Buñuel) il nuovo film di Luca Guadagnino, "Queer", è una lunga autocelebrazione. In cerca del paradiso artificiale di Burroughs

Città del Messico, fine anni ’40. Un luogo caldo e umido dove si suda molto e si muore facilmente, se alzi gli occhi vedi “il cielo di quella speciale sfumatura d’azzurro che si intona tanto bene con gli avvoltoi volteggianti”, si legge nell’incipit del libro di cui il nuovo film di Luca Guadagnino è la trasposizione. La prima inquadratura di Queer indugia su una sequenza di oggetti presenti in una stanza: una sgangherata macchina da scrivere, fogli di carta sparsi e pieni di cancellature a mano, occhiali da vista, mozziconi di sigaretta, una pistola, una bottiglia con liquido ambrato e un bicchiere da shot, un cucchiaio col manico piegato, una siringa, bustine con polvere bianca.

Queer inizia così. E subito entra in scena, col passo indolente e il completo un tempo bianco, stazzonato da troppe notti insonni, il cinquantenne protagonista William Lee, ovvero l’alter ego dello scrittore americano William S. Burroughs – ispiratore della beat generation, omosessuale e tossicodipendente, autore del celebrato Pasto nudo nonché dell’autobiografico romanzo breve Queer (“Checca” anzi “Frocio” perché è questa la parola che continuamente ricorre nei sottotitoli italiani della versione originale inglese) – ovvero l’attore Daniel Craig che lo impersona, ovvero il regista Luca Guadagnino che lo dirige e che voleva fare questa pellicola da anni, ritenendo Queer il libro della sua vita.

È tutto finto. Città del Messico è interamente ricostruita negli studi di Cinecittà, gli edifici con le terrazze sui tetti inquadrate dall’alto, le strade, l’hotel con l’insegna al neon, le sue camere, sono modellini di cartoncino costruiti a mano come nei film di Wes Anderson. Un applauso a Stefano Baisi che firma la scenografia.

Mentre risuonano le note di Come as you are dei Nirvana e a qualche spettatore avveduto viene in mente che Kurt Cobain adorava Burroughs, lo sguardo del pubblico sprofonda nella luce obliqua dei tramonti arancione dei tropici e seguendo l’andatura ondivaga dell’ex James Bond in evidente stato di ebbrezza, entra in un locale sordido dove risuona la musica di Perez Prado e dove si ritrovano gli americani fuggiti dai divieti della madrepatria, qui possono bere fino a perdere i sensi e pagare l’amore di ragazzi che non fanno domande. È in un locale così che Lee incontra Eugene Allerton, giovane indifferente a tutto e di strafottente bellezza, forse gay, forse no.

Il film di Guadagnino Queer, presentato l’anno scorso alla mostra di Venezia e atteso da pubblico e critica essendo ritenuto da alcuni la sua opera più matura (ma non è questo il mio giudizio e spiegherò perché), si articola in tre capitoli e un epilogo:
1- Ti piace il Messico?
2- Compagni di viaggio
3- La botanica nella giungla
Epilogo – Due anni dopo.

La pellicola dura 137 minuti (troppi) e si presenta fortemente squilibrata nella struttura: il primo capitolo dura infatti oltre la metà del film, indugia in lenti piani sequenza sugli incontri di sesso del protagonista che poco lasciano all’immaginazione e a sostenere il racconto è solamente la bravura di Craig, la forza interpretativa con cui entra nel personaggio da professionista qual è, la passione e la malinconia che ci mette, e allo spettatore non resta che lasciarsi ipnotizzare dai suoi occhi azzurri appannati dall’alcol e dall’eroina e che disperatamente implorano amore.

Il resto del film assume un ritmo più serrato anche perché cambia il centro della narrazione: non più l’inseguimento del cinico Eugene da parte dell’innamorato William Lee, ma la ricerca, ambientata nella giungla dell’Ecuador, di una pianta allucinogena in grado di amplificare la telepatia tra le persone: la “yage”. Per Lee è un’ossessione che nasconde il desiderio di penetrare nella mente dell’amato raggiungendo una fusione che va oltre la fisicità dei corpi. Ma l’ayahuaska, come sanno gli antropologi che hanno studiato i riti collegati all’uso di sostanze allucinogene nelle popolazioni indigene dell’America Latina, non è una droga come gli oppiacei che offrono un passaggio per un’altra dimensione: è piuttosto uno specchio e ciò che si vedrà potrebbe non piacere.

Peccato che questa ricerca che suscita echi tanto profondi, sia sul piano psicologico che culturale (come del resto avrebbe dovuto essere anche il primo capitolo incentrato sul bisogno d’amore), venga risolta da Guadagnino con una parodia alla Indiana Jones, rivelatrice della superficialità con cui il regista ha affrontato tutto il romanzo di Burroughs. William arranca come il famoso archeologo aprendosi un varco nella giungla seguito da Eugene e arriva alla capanna della biologa Cotter che è a sua volta la parodia di una sciamana con le fattezze di Dian Fossey (la celebre zoologa che dedicò la sua vita ai gorilla di montagna). In un set identico a quelli della saga di Spielberg, i due sprovveduti scopriranno cosa significa “yage”.

Ci sono momenti in Queer che tentano di imitare le atmosfere dei film di David Lynch, altri in cui il regista azzarda citazioni cinematografiche surrealiste (per esempio, verso la fine, il protagonista scruta attraverso una finestra se stesso alla ricerca dell’amante nella stanza d’albergo, e il suo occhio gigantesco incombe sulla scena come in Un chien andalou di Buñuel-Dalì. Ma questi tentativi più o meno riusciti (come la scena della danza in cui i corpi degli amanti si smaterializzano e si compenetrano dopo aver bevuto la yage), non riescono a evitare l’impressione complessiva di autocompiacimento che impregna e falsa tutta la pellicola. Che certamente ha alcuni punti di forza, oltre alla grande prova d’attore di Daniel Craig, nella colonna sonora ancora una volta firmata dalla coppia Trent Reznor e Atticus Ross e nella fotografia del thailandese Sayomphu Mukdiphrom. Tutti professionisti che fanno un eccellente lavoro al servizio di una regia purtroppo superficiale e auto celebrativa che assembla stereotipi e citazioni, interessata solo a usare il romanzo di Burroughs per compiacersi dei propri sogni adolescenziali.

Vedendo Queer ho pensato che sono davvero lontani i tempi dei primi film con cui Guadagnino mi aveva incantata: in Io sono l’amore e Chiamami col tuo nome, c’erano una partecipazione emotiva e una tenerezza così vere da avvolgere lo spettatore come in un abbraccio. Ma di questo oggi non vedo più traccia.

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