Su "Dei vertebrati e degli invertebrati"
La lattuga poetica
Il nuovo libro di poesie di Giuseppe Grattacaso insegue un linguaggio “scientifico quotidiano” per spiegare gli uomini e la natura. Un modo molto convincente di rappresentare emozioni e conoscenza
Lungo il Novecento, l’interesse dei poeti per il linguaggio scientifico o per stare al passo con l’avanzamento tecnologico non è mancato. Da qui lo studio di lessici settoriali come deposito di espressioni non convenzionali, oppure il rovello nei confronti di processi difficilmente ripercorribili attraverso i versi. Basti pensare alle preoccupazioni per l’arte (letteratura ma anche pittura) e per la vita dell’uomo di Giuseppe Ungaretti: «Vorrei arrivare a realizzazioni assolute; a una unificazione dove fosse dato risalto – (intendo come essenza, come una valutazione delle parole – […] alla gravità e insieme alle vibrazioni fino alle sfumature infinitesimali, di questa nostra vita moderna» (cartolina a Carlo Carrà del 15 aprile 1916).
In questi ultimi anni Giuseppe Grattacaso ha approfondito scrittori d’inizio secolo scorso che hanno proposto una contaminazione tra codici verbali diversi, un’intersezione tra arte, scienza e tecnologia, tra alto e basso, tra modernità e tradizione. Il primo è Guido Gozzano di cui ha curato nel 2023 il poemetto entomologico Le farfalle (Interno Poesia). Il secondo è Giovanni Pascoli al quale Grattacaso ha dedicato un anno fa un agile e originale libro intitolato Una felicità nuova. Riscoprire la poesia di Pascoli (Treccani). Sono entrambi autori citati in esergo alle poesie del suo nuovo libro: Dei vertebrati, degli invertebrati (Interno Poesia, 116 pagine, 15 Euro). Ma bisogna menzionare anche il belga Maurice Maeterlinck e il suo L’intelligenza dei fiori curato e tradotto dal nostro poeta (Elliot 2022); mentre, fuori da questo ambito cronologico, altri nomi di riferimento sono i “padri” Empedocle e Lucrezio e infine colui a cui si è ispirato il titolo del volume, il poeta ingegnere Leonardo Sinisgalli: «Sono vertebrati gli alberi, le foglie, i piedi, i cristalli, i muri, ecc. Sono invertebrati l’acqua, il fumo, le nuvole, la cenere, la polvere» (Horror Vacui).
Riprendendo parole dello stesso Grattacaso – e impiegandole per i suoi versi – questi autori e i loro percorsi appaiono uno «strumento per riflettere sui destini degli esseri umani, penetrare al fondo di sé stesso e rinnovare il proprio linguaggio poetico».
“Lo stato naturale”, una delle sei parti che compongono il libro – tale vuole presentarsi piuttosto che raccolta – ha come protagonista il mondo vegetale, in particolare gli ortaggi. La singolarità di Grattacaso è che la lattuga, la cipolla o l’asparago, il basilico e il pomodoro, sono descritti con uno sguardo di umana sensibilità, quasi fossero parti del nostro corpo, come se l’attenzione fosse rivolta a tratti dei nostri nervi, a porzioni della memoria, a tessere della cute:
La lattuga considera che il tempo
suo vada troppo in fretta, disperata
per quella foglia diventata gialla,
illanguidisce per avvilimento,
quasi non più lattuga, solo foglia
già separata, vizzo compimento
dell’esistenza che sfarina in esili
inconsolati addii. Questa è la vita
dell’insalata, un giorno rigogliosa,
piena di sé, fiorente, decaduta
subito dopo in grinze e ruvidezza,
le macchie sulla pelle, la lattuga
medita il tempo e intanto è inaridita.
Le altre sezioni – legate a precise tappe temporali come il periodo del confinamento per la pandemia o a immagini offerte dalla natura circostante o dalla tradizione più ammirata: i licheni di Camillo Sbarbaro, le crisalidi di Gozzano, le vecchie strade di Giorgio Caproni, la polvere di Sinisgalli – ci parlano di esseri fluttuanti, incerti, «sul filo della lama»:
Per qualche tempo rimanere in stallo
tra un’ora e quella assente in sospensione,
difetto di cadenza, oscillazione
nell’incertezza, nel moto pendolare
sentirsi sani, è la liberazione
aderire appagati all’intervallo,
al vuoto che consola, nel ristagno
restare a galla, un pigro impaludarsi
accontentato, fluttuazione incerta
del desiderio: la trasformazione
ancora indefinita è sentimento
del corpo che sfiorisce e si rinnova,
si risolleva, arretra e si rallegra
nello sgomento della distrazione.
Nella pausa della dilazione, del rinvio, della proroga si dispiega la poesia di Grattacaso, e la sua ricerca di mettere un po’ d’ordine intorno a sé grazie a eleganti endecasillabi, controllati accumuli lessicali e a una sintassi flessuosa. È proprio in tale intento che l’arte agisce con mezzi propri a fianco della scienza.
La capacità del poeta di dedurre per immagini rispecchia l’ordine che la mente costruisce ripercorrendo i gradi della conoscenza, cioè i modi con cui io conosco. Da Cartesio si inizia a sottolineare questa idea di ordine come azione con cui il pensiero deduce e concatena tra loro le verità, partendo dalle idee semplici in analogia con quanto fanno i matematici. È una svolta che mette in evidenza la priorità del soggetto; non possiamo non ricordare la «Ordo et connectio idearum idem est ac ordo et connectio rerum» di Spinoza (Ethica more geometrico demonstrata), con questa perfetta coincidenza tra ordo rerum e ordo idearum, dove si distrugge o si assorbe nella mente l’ordine ontologico oggettivo. La costruzione della scienza da allora è diventata una costruzione secondo principi o categorie, un processo dell’intelletto che circoscrive l’ordine dei fenomeni e a essi si attiene abbandonando la metafisica. Questa spinta della ragione non costruisce un sapere, ma tende a ricostruire un ordine, che è un ordine finalistico del tutto, del quale non si può dare nessuna dimostrazione, e tuttavia soddisfa la nostra aspirazione alla totalità, quasi a recuperare in margine la nozione di ordine iniziale, il complesso delle cose ordinate secondo un fine:
Il caotico agire in spiegamento
esatto e rarefatto degli storni
uno vicino all’altro in confusione
o in precisa missione esplorativa,
volo sapiente in acrobazia,
è malattia di specie avanti e indietro,
la passeggera improvvisazione
inconcludente, orchestrata a dispetto
di saggezza, o disegno ordinato,
astuta mossa in vista di una meta,
capriccio orizzontato a quale fine?
La macchia nera, la freccia, la galassia
a spirale, l’universo che sbanda,
l’onda che si tramuta in mulinello,
il dito verso il cielo, dal camino
fumo che sale, grigia nuvolaglia,
la danza, il coro, la virgola che sogna
di farsi luna e chiave di violino,
alici a banchi nuotano nel cielo,
la risacca, la mano nella sabbia:
forse l’errore d’uno e gli altri dietro
senza sapere d’essere figura,
la silhouette curata nel dettaglio
nata per sbaglio è disavventura.
La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini.


