A proposito di "Annìle"
La montagna bambina
Il romanzo di Edoardo Mantega descrive un personaggio da favola (lo spirito della montagna) che si incarna in una bambina nel cuore della Sardegna
La commistione tra reale e magico che rende, complice la sospensione dell’incredulità, fenomeni inverosimili del tutto accettabili nella storia che si sta raccontando ha stabilito la fortuna di una corrente letteraria che non a caso si chiama proprio realismo magico. Seppur con qualche riserva legata a una tradizione più prettamente sarda, è in questa corrente che, da una prima lettura, verrebbe da incasellare un’opera in cui a una bambina crescono dal petto rovi e sterpaglie nella totale assenza di sorpresa da parte dei suoi concittadini, o dove la personificazione dello spirito di una montagna interagisce con altri esseri umani. Ma l’esordio di Edoardo Mantega, Annìle. Ovvero falsa fiaba della montagna di ferro (Il Maestrale, 176 pagine, 20 euro) è in realtà molto altro.
Come si può intuire, il protagonista è Annìle, personaggio la cui natura, a metà tra fiabesco e terreno, si rivelerà non facile da comprendere fino in fondo. Lui, Annìle, non è nient’altro che lo spirito della montagna che, sollecitato da un’occasione propizia, diventa persona («Il giorno in cui il giovane Pietro Ladu è scivolato giù per la cascata di Massabari, battendo la testa, ho preso il suo corpo»). È grazie a questa trasfigurazione che incontrerà Maddalena, compagna di avventure ma anche impareggiabile maestra. Sarà lei, infatti, a insegnargli le preziose arti del leggere e scrivere. Ed è così che la montagna inizia a redigere un diario che sarà, provvidenziale coincidenza, recuperato da colui che poi, da anni sulle tracce del curioso essere, ci narra la storia. L’espediente del manoscritto ritrovato è un topos senza età e, con esiti più o meno validi, è stato ripreso nelle patrie lettere con insistenza. Qui il ritrovamento svolge la funzione di antefatto, così che le vicende muovono dalle pagine del reperto, che si configura come mezzo privilegiato per l’accesso a delle dinamiche accettabili, come in tutte le fiabe, solo con una buona dose di fantasia. Il che, lo si chiarisce, è cosa positiva dato che il lettore è spesso condotto in trame non scontate. E non scontato è il ricorso a un moderato epos che, per i toni lirici e il richiamo a epoche lontane, ataviche, per la rappresentazione dell’inesorabile scorrere del tempo, ricorda Passavamo sulla terra leggeri, capolavoro di Sergio Atzeni. L’attenzione che Mantega ha verso i suoi predecessori emerge dai suddetti elementi ma anche dall’uso di una lingua che rimane nei confini della medietà, così da muoversi elegantemente tra i diversi piani narrativi inscenati grazie soprattutto alla sua chiarezza.
C’è però da dire che nei diari, per essere uno che ha appena imparato l’arte, Annìle ha una padronanza del mezzo stilistico molto matura e certo, lo si è anticipato in apertura: bisogna pur credere, date le premesse, che ciò sia possibile, ma forse l’autore ha perso un’opportunità di servirsi di una lingua mimetica confacente alle reali abilità linguistiche del personaggio principale che avrebbe movimentato la narrazione, a tratti un po’ monotona, e conferito peculiarità allo stile. Una maggiore caratterizzazione dei personaggi, poi, sarebbe stata auspicabile: partendo da presupposti più che incoraggianti (lo si ripete: uno è una montagna e l’altra è una bambina-sterpaglia), i toni scemano verso un generale appiattimento delle personalità coinvolte. Molto semplicistico è il finale che, pur in maniera coerente con quanto ci si aspetterebbe da una fiaba, si riduce a un vortice troppo frettoloso dove vengono tirate le somme del discorso, lasciando con il cosiddetto amaro in bocca. Ecco che la velocità non è tanto temporale, o non solo, quanto qualitativa, come se ci si trovasse davanti a una bozza da sviluppare. I temi sono indubbiamente interessanti e, pur con le specifiche di cui sopra, lo stile funziona bene, facendo ben sperare per le prossime uscite.
La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini.


