Massimo Morasso
“Il falco e la colomba” di Davide Puccini

Cronache dell’anima

«Dolceamara ironia», «sapienza d’artigiano» e «d’uomo sensibile» che s’interroga sul senso della fine. Poesia piena di pietas, del «“piccolo fermento” umano» e del «suo vasto respiro esistenziale». Poesia «leggera e vagante». È una summa del poetare dell’autore di Piombino questa sua settima raccolta...

In “Oikos”, la prima sezione di Il falco e la colomba (Interlinea, Novara 2024), c’è una poesia che s’intitola “L’arte di stendere l’asciugamano al mare quando è vento”:

Cerco di stendere l’asciugamano
sulla ghiaia spianata o su uno scoglio
ma dispettoso il vento me l’arruffa
proprio quando è sul punto di toccare
il suolo. Allora subito riprovo
ma di nuovo mi aspetta il fallimento.
Bisogna coglier l’attimo che il vento
per un momento tace e al primo soffio
assoggettare l’impeto leggero
per atterrare il telo dolcemente
e poi fermare alla svelta coi sassi
l’ambito risultato provvisorio.

Sì, devo assecondare la natura
per sentirmi davvero in armonia
col suo vasto respiro esistenziale
e annullare il piccino mio fermento.

Si tratta di uno specimen perfetto per dire qualcosa dell’arte poetica di Davide Puccini. Pieno di dolceamara ironia, questo è un testo metapoetico sornionamente nutrito di sapienza. E uso non a caso il termine “sapienza”, che, in questo caso, vale perlomeno in due sensi contigui: sapienza d’artigiano, in primis, cioè a dire abilità di mestiere di un letterato, qual è Davide Puccini, fedele alla tradizione del bel verso italiano, che sa il fatto suo, nel padroneggiare ritmi e strutture; sapienza, poi, d’uomo sensibile e “d’età” che, con lucida sottigliezza, s’interroga senza bamboleggiamenti sulla sua stessa fine, e, in filigrana, sull’a che pro di ogni fine. Per inseguire con profitto l’autore – l’io poetante – nei suoi tentativi, agiti tutti in rigorosi endecasillabi, di stendere l’asciugamano sulla ghiaia o su uno scoglio, occorre disporsi a introiettarne senza remore il retrogusto filosofico e mettersi in viaggio insieme a lui. Ma in viaggio verso dove? Verso, direi, la consapevolezza esibita nei quattro endecasillabi conclusivi, staccati dal resto anche sul piano grafico, che danno contezza della fruttuosità del doppio gioco in atto fra le diverse scacchiere del sentimento della realtà di Puccini. Per il quale ci si ritrova, quasi inavvertitamente, ad aver assistito a un transito dai primi fallimenti al buon esito del «l’ambìto risultato provvisorio», capace di annullare, per un attimo, il «piccolo fermento»umano nell’armonia della natura col suo vasto respiro esistenziale.

Summa del poetare di Puccini, questa settima raccolta del poeta di Piombino è percorsa da capo a fondo da una parola discorsiva, priva di oscurismi, che si muove in consapevole risonanza con le movenze del sublime d’en bas della migliore tradizione novecentesca, quella che va da Pascoli a Caproni. “Leggere e vaganti”, le poesie di questo godibile libro “sabeggiano” per virtù d’onestà, addizionata qua e là da un umor piccante che non si sa se vada attribuito soltanto al Puccini uomo, al suo carattere e alla sua veemente toscanità, o, anche, almeno in parte, al Puccini gran studioso del Pulci.

La raccolta si articola in tre sezioni diseguali per ampiezza, senso e qualità: “Oikos”, “Al tramonto” e “Giudizio”. Non dirò quali di esse mi è piaciuta meno, ma dirò, invece, che, prese nel complesso, delineano un percorso che va dall’empatia e la pietas per l’esistenza tutta – la vita piccola e l’inerme, in particolare –, all’autoriflessione di un uomo nel suo “mondo” (inteso come paesaggio a un tempo esteriore e interiore: qui la terra e il mare di Toscana sono emblemi occasionali di un’apertura mentale utile a ritrovare un io nel proprio dentro), alla meditazione religiosa, che chiama il poeta a dar conto di un giudizio morale. Tre capitoli che offrono, ciascuno a proprio modo, un modo affabile di fare poesia: non la poesia tragico-seriosa dei nipotini degli ermetici e degli araldi della parola mito-orientata, bensì una poesia tessuta in trame d’ironia, che esprimono un molto umano timore del non senso, in forme nitide, in narrazioni di singolare verve icastica.

Il poeta (in) Puccini, qui, potrei benissimo dirlo anche animalista e ambientalista, pensando agli esseri e agli esserini senza-lingua che ci parlano per sua grazia, che vivono e muoiono nella ferita dell’esistere e, spesso, nella colpa di noi sapiens (?) per un’appendice di male, come le cavallette fatte a pezzi per la «gloriosa impresa di un ragazzo / che non aveva di meglio da fare» o il topolino avvelenato agonizzante della splendida “Lo sguardo”, apice emotivo della galleria di incontri con animali e cose che la raccolta ci regala, ai quali la parola, una volta pronunciata, restituisce una nuova, inedita possibilità di significato:

Non potrò mai dimenticare l’occhio
umano troppo umano del topino
avvelenato che stavo buttando
nel secchio della spazzatura dopo
averlo catturato facilmente
con un asciugamano mentre inerme
si trovava sperduto nella stanza.
Lo sguardo per un attimo ha rivolto
verso di me, ma non era un’accusa,
non uno sguardo ostile ma fraterno:
quello sguardo diceva sono stanco,
lascia ch’io dorma in pace il sonno eterno.

Fa sorridere e perturba, la poesia di Puccini: più descrive i fatti e i misfatti di un giovane vecchio con la testa che «corre veloce come un ragazzino», più si fa cronaca di un’anima, s’invera, e, senza neanche avere l’aria di volerlo fare, ci convince.

Nell’immagine vicino al titolo: Silvestro Lega che dipinge sugli scogli di Giovanni Fattori

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