A proposito de "La ragazza di Savannah"
Storia di Mary Flan
Il nuovo libro di Romana Petri è dedicato alla scrittrice americana Flannery O’Connor. La storia di una donna (e una grande narratrice) combattente
Pugilato e letteratura. Qualcuno la ricorda come la signora dei pavoni, allusione al testo d’apertura di Mystery and manners, manuale di scrittura che nel titolo originale riecheggia un mantra elisabettiano molto noto, Manners Maketh Man (lo stile fa l’uomo). Del resto le sue galline sono state, in grande anticipo su Michael Jackson, le antesignane del moonwalking, liscio moto retrogrado, frutto di un addestramento ottenuto con la sola imposizione dello sguardo.
Proprietaria dello sguardo istruttivo in questione Flannery O’Connor, che in casa era forse apostrofata da sua madre, con affetto e appena un po’ con tono di rimprovero, come Mary Flan.
C’è un motto poi che racchiude squisitamente il mood e l’inclinazione naturale (bent) della nostra cara Flannery, ed è: Sola a presidiare la fortezza – formula scelta da minimum fax per siglare la versione italiana (di Giovanna Granato) di The habit of being (o Habitus dell’essere, Lettere), l’epistolario della O’Connor.
Sola a presidiare la fortezza, dunque. Quale fortezza? Perché presidiarla? E perché da sola?
Una serie di questioni e un piccolo mistero, tutto quanto sopra, messi sotto il nostro naso da Romana Petri, autrice del recente romanzo, uscito per Mondadori, attorno alla Maestra del Racconto Americano Contemporaneo, Flannery O’Connor: La ragazza di Savannah, appunto (Mondadori, 276 pagine, 19,50 Euro).
Savannah è nello stato della Georgia, immortalato da Ray Charles che pure ne era figlio (Georgia on my mind): è bagnata dall’omonimo fiume e ha un posto d’onore nella storia americana. Però la capitale dello stato, a tre ore di distanza, è Atlanta, che nei recenti Giochi Olimpici ha avuto in Savannah la sede dislocata delle competizioni velistiche. Flannery con sua madre, la formidabile Regina Cline, è andata poi a vivere a Milledgeville, Contea di Baldwin, in una fattoria chiamata Andalusia. Aggiungiamo un piccolo dettaglio struggente a questa mappatura cartografica: con Flannery O’Connor siamo in un’area liminare, al confine col South Carolina, e ancor più siamo in una Bible Belt, o fascia biblica, in un’area cioè pullulante di predicatori d’assalto.
La cara Flannery era una cattolica di origine irlandese (come attesta il cognome) circondata dai protestanti e da adepti a una miriade di sottoconfessioni infervorati nell’interpretare argutamente e diffondere la Parola di Dio, coprendo il territorio non più su cavalli e calessi ma su scassoni di automobili oppure saltando su pullman e treni.
Chi ha letto i numerosi racconti e i pochi romanzi di Flannery O’Connior sa che queste situazioni, questi predicatori da strapazzo, questi viaggetti a scopo di evangelizzazione sono tra i passaggi più drammatici e, pure, più (a loro modo) divertenti che Flannery O’Connor abbia raccontato. Pensiamo all’indimenticabile Hazel Motes e al suo temporaneo compare Enoch Emery, e a due scene in cui al solito i protagonisti sono irrimediabilmente goffi, patetici, indifesi, destinati a finir male in una chiave narrativa che scivola nel grottesco. Nessuno può aver dimenticato Hazel Motes che sale sul treno rivestito da predicatore di tutto punto, tanto che il suo nuovo vestito color carta da zucchero ha ancora il cartellino col prezzo attaccato. E poi memorabile il dettaglio del cappello: del resto nell’altro romanzo, Il cielo è dei violenti, la voce narrante ci fa notare che esiste una decisa differenza tra un uomo col cappello e un uomo senza cappello. E vogliamo parlare di Enoch Emery che finisce in un furgone insieme al gorilla? Racconto, Enoch e il Gorilla, poi incorporato nel romanzo Wiseblood (La saggezza nel sangue): è proprio Enoch a comunicare il concetto della conoscenza innata e istintiva, la saggezza del sangue appunto, che spiazza Hazel Motes (o Haze).
Però dal romanzo di Romana Petri emerge un altro senso riguardo a: Sola a presidiare la fortezza.
Certamente la fortezza è l’integrità spirituale e l’asserragliamento nella fede cattolica che Flannery O’Connor difende dagli assalti di altre precarie confessioni, ma alla base, più che uno sguardo e un atteggiamento guardingo rivolti all’esterno, c’è un chiaro impegno individuale a intrattenere un rapporto con la fede molto personale con Dio, così determinato che persino l’Angelo Custode sembra uno scocciatore che osa frapporsi tra lei e il Padreterno. Al punto che la dolce MaryFlan, non ancora Flannery e basta, con lena pugilistica ne fa fuori due o tre, guadagnandosi l’arcigna disapprovazione di sua madre e l’adesione de plano, dolcissima e tutta immaginativa, di suo padre.
A una lettura attenta, impigliata in corrispondenze sentimentali emotive e ancor più d’azione, non sfugge che Romana Petri perpetra una costante immedesimazione di sé nella persona di Flannery O’Connor: la dolce e vibrante MaryFlan, una volta divenuta Flannery e basta, una volta saltata sul ring della letteratura, non lesina affondi, ha l’agilità asciutta di un torello, la sana sfrontatezza del boxeur impavido. Flannery O’Connor non ha mai evitato il confronto con l’agguerrita classe media e in particolare con le dolci massaie e gagliarde madri di famiglia del suo Sud (come Regina Cline), né rinunciato a dare filo da torcere alle care soroptimists (l’altra faccia, femminile, dei club di servizio, simil–Rotary), nei cui salotti portava con grazia e senso di sfida la messe generosa dei suoi segreti di scrittura, poi raccolti appunto in quel manuale involontario (tradotto a suo tempo da Ottavio Fatica, col titolo Nel territorio del diavolo) che è Mystery and manners.
Si vede bene che è costante in Flannery O’Connor (ed è questo che sta a cuore a Romana Petri portare sotto la lente della nostra attenzione col suo La ragazza di Savannah) l’individualismo sfrenato e integrale (un po’ integralista) di chi, pur accettando di mischiarsi col cronismo di cui la realtà sembra degna, però “viaggia” come usa dire su altre frequenze, misurandosi direttamente con Dio con gli Angeli e con quel tentatore, Angelo decaduto dopotutto, che è il diavolo. Umano dunque non vuol dire per Flannery O’Connor solo mortale, caduco, fragile, vulnerabile, come sono tutti i suoi personaggi, mai però abbandonati nelle paludi del patetico, ma vuol dire resistente, in lotta, in cerca di giustizia, e fatalmente in stato di (dis)grazia.
Rovesciando il discorso, di cosa si occupa la letteratura? Dell’unica condizione che conosciamo e ci è dato di esplorare, la nostra condizione di umani: la lotta quotidiana, fisica e speculativa, che ci impone l’esistenza; e l’essere vivi: l’unica pista, l’unico anello di spaziotempo, curvilineo e uguale, a nostra disposizione – su cui ci affacciamo con sano realismo cercando di non mancare l’incontro con la nostra sfera spirituale, con la detection di una minima dose di senso o di lume.
Sono tutti losers, tutti perdenti i personaggi di Flannery O’Connor?
Di sicuro sono tutti Sisifi, vivi e in marcia, dunque felici, però sconfitti sulla distanza, destinati per sfinimento a capitolare, ma con la sporta, alla fine, piena di esperienze e risultati. Pugili suonati, sopravvissuti alla sfida epocale con la vita – come lei, Mary Flan poi Flannery e basta. Allora Sola a presidiare la fortezza assume (e Romana Petri ci aiuta a coglierlo con questo travolgente romanzo intorno alla ragazza di Savannah) il senso di tetragona ai colpi di ventura, di combattente fino all’ ultimo respiro, arrivato troppo presto, dopo un duello senza quartiere col lupus eritematosus, il male ereditato dal dolcissimo padre, l’unico angelo protettore che lei mai avrebbe voluto perdere. In più scopriamo che Mary Flan è un nome casalingo inventato da Romana Petri che, giocando su Flan con Flannery, rimarca la vulnerabilità di questa prodigiosa, assoluta, pugile della letteratura.
La fotografia accanto al titolo è di Giuseppe Grattacaso.


