Arturo Belluardo
Il grande poeta di Marsala

Ritorno a Cutusìu

Dopo trent'anni, Nino De Vita torna sulla sua raccolta “Cutusìu”. E la rinnova in un lavoro costante e infaticabile su di sé, sulla propria lingua, i propri luoghi e le proprie radici

Torna in libreria dopo più trent’anni, Cutusìu, la nuova raccolta di poesie in lingua marsalese di Nino De Vita (Le Lettere pagg. 377 € 20): non sembri un ossimoro, che questa edizione del libro dell’autore siciliano è innovata in lingua e traduzione e contiene ben venti inediti in più. È quindi il nuovo ritorno di un’opera che, uscita nel 1994 in tiratura limitatissima, “stampata alla macchia”, vinse inaspettatamente la prima edizione del “Premio Alberto Moravia”, e che segue, a distanza di due anni, la riedizione di Cùntura.

Viene da chiedersi perché De Vita ritorni a lavorare su opere già edite e non le lasci invece libere nel mondo, perché non esca da questo microuniverso lilibeo, da questa casa in pietra in contrada Cutusìo, nei dintorni di Marsala, tra gli stagnoni e l’isola/non isola di Mozia, e perché invece lo moltiplichi in continue declinazioni, in ripetizioni che variano di appena un particolare, in questa memoria-profezia che si autoperpetua.

Ci si chiede se sia la sua un’ossessione da cesello, come se lavorasse con i versi e col dialetto come Jan Potocki, a limare una fragola d’argento dal coperchio della teiera fino a farne la pallottola perfetta, o se sia la prova palese che la vera narrazione (ché narrazione in versi è questo Cutusìu) non sia altro che la riproposizione identica e variata della propria sfera, che non necessiti di movimenti spaziali, ma di pochi passi, dalla campagna al mare, nell’afa agostana, verso un luogo estraneo, affascinante e terribile al tempo stesso.

Dove ci troviamo quando siamo a Cutusìo?

Timpuni assulazzatu Cutusìu:/ciari ggiannuffi, rrunzi,/chiàppari e affucamuli; quarchi alivu/sturciniatu, e ‘u carduni/spinusu.

Altura desolata Cutusìo:/sciare calcaree, rovi,/capperi e avena selvatica; qualche ulivo/contorto, e il cardo/spinoso.

È questo un luogo mitologico, di caos primigenio, siamo vicini a uno degli ingressi non rivelati degli Inferi, a uno di quei portali, atri e imi, attraverso cui emerse Ade a rapire Proserpina. E questo ci viene confermato dai primi versi della raccolta, quelli che De Vita dedica alla propria nascita.

Ma è viscorna, ammusciuta,/l’irvazza addivintava giannuffa. E poi marroni,/viola/attinciatizzu./Sutta u cèvusu, nterra,/azzunotti jucàvanu c’u fangu.

Ma negli angoli incolti, avvizzita,/l’erbaccia si faceva/gialla. E poi marrone,/viola molto scuro./Sotto il gelso, per terra,/ragazzetti giocavano con il fango.

Ecco i ragazzetti, partoriti dal fango, piccoli demoni, attraversati dal padre di De Vita, che si torce le mani impotente, fantasma leggero dalla rievocata disperazione: il parto della moglie è difficile, lei e il bambino rischiano la vita. Decidono di salvare la madre ed estraggono il bambino col forcipe.

Tiràvanu cu i ferri/ri nna testa. Tiràvanu/‘a testa. All’urvisca./‘A morsa,/ncapu ‘a carni

Ammaccava, scacciava,/turturava

Una massa/di carni annivuriuta/vinni fora ru ventri/ri me matri: cu ‘i ammi,/‘i vrazzicedda /’a testa/nzanguniata

Tiravano col forcipe/dalla testa. Tiravano/la testa. Alla cieca./Il ferro,/sulla carne, nella carne,/ammaccava, attanagliava,/torturava…

Una massa/di carne neroviola/uscì dal ventre/ di mia madre: con le gambe,/le braccine, la testa/insanguinata…

 

La creatura sembra morta, avvolta in grumi di lava infernale, ma ecco che riappaiono i ragazzetti a giocare col fango, un filtro di luce tra le persiane e il dottore nota un respiro. E…

‘U dutturi chiantava/ficuniava/’i irita nno pettu,/ciuciava rintra ‘a vucca./E cafuddava: nne nàtichi,/nne cianchi

Poi, fnarmenti/-nivuru-/chiancii.

Nasce il poeta, fatto di terra nera e fango, legato indissolubilmente a questa terra che l’ha voluto morto e vivo allo stesso momento. Creatura di Malkuth, la decima delle sephirot cabbalistiche, quella del regno della terra, del mondo di origine, dove la presenza divina si declina al femminile, la Shekinnah. Ponte tra l’umano e il divino, che esprime la propria potenza creatrice di mondi con la bocca, il De Vita poeta riversa e cristallizza un’oralità perduta in ritmi fricativi e percussivi, in dentali afasiche, in labiali dilatate.

Un dialetto-mondo, un dialetto che crea e distrugge mondi, finché non crea quello che gli piace. E non si può non riportare quanto scritto da Enzo Siciliano e ripreso da Vincenzo Consolo nella prefazione a Cutusìu: «I poeti in dialetto, oggi in Italia, sono di una specie singolare. Sono una setta di rivoltati in lotta silenziosa e pertinace contro la lingua oleata, vasellinacea, non più colta che si parla su sollecitazione di impulsi che passano via etere dalla Vetta d’Italia a Capo Pachino. Voltata la schiena al parlato consueto, questi poeti attingono alla sorgiva naturalezza delle lingue materne, e non l’accolgono trascrivendone ingenuamente la nativa purezza: ne fanno oggetto di culto del tutto espressivo, ne potenziano le squisitezze, le possibilità ritmiche e percussive come con l’italiano medio nessuno scrittore riuscirebbe. I dialetti acquistano così una rara e nuova elezione d’arte».

La lingua di De Vita è una lingua militante, fedele a sé stessa e alle sue origini ctonie, ben lontana da quel malavoglismo d’antan che permea, come fa notare Fabrizio Patriarca, la recente produzione narrativa italiana, tutta avvinta nel prefisso Mal- nei titoli, devota a una lingua perbenista, appena sporcata da un dialetto opalescente, da velo di detersivo sopra l’acqua sporca del secchio.

De Vita evoca la sua biografia, la fa diventare materia, crea golem indimenticabili, come Bbicitedda, spirito che ragiona di arcobaleni che uniscono cielo e mare e si domanda se sia il mare a colorare il cielo tramite l’arcobaleno o il cielo il mare. O come Angiulu, struggente figura di fool, che si insinua nella pista del circo equestre truccato da clown e mette in scena numeri improbabili: “E ora/un gghiocu chi cchiù assai/mpirugghiusu ri chissu ‘un cci nni su”, salvo poi aggredire violentemente chi lo apostrofa buffone.

Riscopre, il poeta marsalese, il mantra arcaico degli elenchi: elenchi di pesci muletti,orati nichi, vuggiuna, quarchi ancidda, di frutta secca sulle bancarelle sacchi ri pastigghia, ri calia e simenza atturrati, caccavetta, di erbe ‘a marva, ‘a spicafrancia, ‘a ciocca, l’addàuru, l’amenta, ‘izzucca cu i taruna jittati… e scorrono davanti a noi le navi omeriche dell’Iliade, gi strumenti musicali delle profezie di Daniele.

È poesia questa che non fa concessioni all’autocompiacimento, che sfocia dalle crepe ritorte come serpi della terra assetata. Ma che ci riconcilia con il lirismo delle origini, della prima volta che vedemmo i pesci guizzare a branchie spalancate nel cesto di un pescatore o che sentimmo qualcuno raccontarci una storia, come Paolo, il marito zoppo della maestra Cittina “Cùntura nni ricia,/’u sapiddu si vveru/sti fatti, siddu fàusi./Cuntava./E a mmia mi/piacia, ch’un nnavissi/finutu cchiù ri sèntiri”.

“Storie ci raccontava,/chi lo sa se veri/questi fatti, se inventati./Raccontava./E a me/piaceva, che non avrei/finito più di ascoltare”.


La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini.

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