Sergio Buttiglieri
Al Teatro alla Scala di Milano

Walkiria senza cavalli

Ha fatto molto discutere (e non a tutti è piaciuta) una nuova edizione della “Walkiria” di Wagner che punta tutto sul canto e molto meno sulla potenza della musica

Più Wagner affonda nel mito, e più lo trovo umano. Scriveva uno che aveva capito tutto, Marcel Proust. La Walkiria è l’opera più popolare di Wagner e nello stesso tempo il capolavoro dell’artista giovane, prima che la lettura di Schopenhauer lo piegasse, attraverso il pessimismo, al conformismo. Dopo scriverà capolavori per nulla inferiori (ma non nell’Anello del Nibelungo, di cui la Walkiria è la prima e senz’altro la più bella “giornata”), ma l’animus non è più quello: chi abbia il gusto della libertà e la fiducia nella vita e nell’uomo che ad esso corrisponde, proverà sempre una predilezione istintiva, estranea alle considerazioni strettamente estetiche, per l’ottimismo rivoluzionario e la grandiosa indisciplina che sostanziano musica, vicenda e personaggi della Walkiria.

Il glorioso incesto di Siegmund (l’ottimo tenore Klaus Florian Vogt) e Sieglinde (il Bravo soprano Elza Van Den Heever), in barba allo scandalizzato moralismo di Fricka (la dirompente mezzo soprano Okka Von Der Damerau), la tranquilla autosufficienza dell’immanenza di Siegmund, erede diretto del Prometeo goethiano, che delle gioie celesti del Walhalla non sa che farsene, ma la sua felicità se la vuole costruire qui, su questa terra, in compagnia della sua donna, la ribelle Brünnihilde (il fresco e animoso soprano Camilla Nylund) cioè la generosa insurrezione della coscienza morale contro la legge iniqua: tutto ciò compone un quadro morale di fervido liberalismo quarantottesco, che naufragherà  poi nel pessimismo reazionario delle ultime due “giornate”. Il tutto calato in una cornice suggestiva di costume primitivo, aperta agli sbaragli di un’esistenza selvaggia, nel contatto diretto con le grandi forze della natura e sollecitato dal ritmo di un’azione incalzante che ha poco da invidiare agli effetti più sensazionali d’un romanzo d’avventure.

Più d’ogni altra, quest’opera manifesta quell’attitudine dell’arte wagneriana ad accogliere simbolicamente nel mito relazioni umane universali, nelle quali, come scrive l’Adorno, l’uomo comune si rispecchia, sentendole come cosa propria.

E se la libera vita errante di Siegmund e Sieglinde, fedeli alla loro vocazione, propone un’ideale da tutti sognato e poi a poco a poco abbandonato col cadere delle illusioni di gioventù, la rinuncia di Wotan, è li a documentare il malinconico compromesso con le convenzioni, il disciplinato ritorno all’ovile dell’ordine costituito. Forse in nessun’altra figura wagneriana, salvo quel corrispettivo realistico Wotan a che è il magnetico baritono Michael Volle, il simbolismo è così riccamente materiato di universali valori umani.

Questa potente parabola del destino individuale, trasferita nel fascino silvestre di un’esistenza primitiva, si vale d’una musica muscolosa, che non conosce ancora l’estenuata atomizzazione cromatica del Tristano né la sublime rarefazione senile del Parsifal: una musica giovane, vigorosa nel ritmo e nell’evidenza dei contrasti, che non disdegna ancora del tutto la seduzione del bel pezzo di forma quasi chiusa, così come lo spettacolo non snobba le attrattive di vistosi effetti scenici, come la cavalcata delle Walkirie, e l’incantesimo del fuoco.

Se la Walkiria è principalmente questo, cioè un’opera esuberante e forte, una specie di virile ed esaltante romanzo d’avventure, allora ci si può chiedere se la castigata sobrietà scenica e la squisita raffinatezza musicale dell’edizione di questa nuova produzione del Teatro alla Scala presentata in questi giorni, sotto la direzione della notevolissima Simon Young e la calibrata discussa regia di David McVicar, siano veramente il miglior partito interpretativo a cui attenersi. Le scene pensate da Hannah Postlethwaite assieme ai costumi di Emma Kingsbury, con l’apporto delle luci di David Finn, miscelate con i video e le proiezioni di Katy Tucker associate alle coreografie di Gareth Mole, in cui si sono mossi i personaggi ideati dal maestro di arti marziali David Greeves, hanno creato diverse incertezze nel pubblico. Non tutti hanno apprezzato completamente questa produzione, che io, comunque, ritengo di grande fascino. S’è vista una Walkiria senza cavalli, in cui le bellicose vergini teutoniche, ridotte al rango di cavalleria appiedata, discorrevano fra di loro (fortunatamente in tedesco) di Grane e della Grigia, e degli altri loro cavalli giumente e stalloni che non c’erano.

L’esecuzione musicale, di prim’ordine, secondava questo carattere di ricercata modestia. Il regista per una specie di disinteressato antidivismo, ha innanzi tutto puntato essenzialmente sulle voci, dando al discorso orchestrale una funzione subordinata e prendendo tempi sensibilmente larghi, che consentissero il pieno spiegamento del canto; ha operato abilmente per sciogliere quei pezzi celebri che di solito stanno quasi come entità musicali a sé in seno all’opera; ha fatto in modo che il canto della primavera nel primo atto  e la cavalcata delle Walkirie nell’ultimo s’inserissero il più possibile nel decorso drammatico, senza spiccare isolati come forme chiuse.

Di un’interpretazione così insolita certe parti dell’opera si sono giovate, quelle più sottili e penetranti, come il dialogo di Brünnihilde e Siegmund nel secondo atto, e il duetto che precede gli addii di Wotan nel terzo; in particolare è emersa bellissima, per incisivo rilievo e verità d’accento musicali, una parte che generalmente è considerata noiosa, e cioè il battibecco coniugale di Wotan e Fricka nel secondo atto. Perciò è stato forse fatale che venisse attenuato quanto nella Walkiria sembra più caratteristico, cioè l’elemento rude e selvaggio, e venissero invece accentuati valori che di solito emergono meno comunque, sempre su un piano di consapevolezza artistica molto alta, che giustificava pienamente il successo nel pubblico scaligero dello spettacolo.

Ricordo ancora cosa scrisse Nietzsche dopo che aveva visto a Montecarlo il Parsifal di Wagner nel 1887: «Da un punto di vista meramente estetico, Wagner ha mai fatto qualcosa di meglio? Ha espresso, “comunicato” la più alta consapevolezza e determinatezza psicologica in rapporto a ciò che in quel caso doveva essere detto; ha usato a questo fine la forma più concisa e diretta, e ha portato ogni sfumatura del sentimento fino all’essenzialità epigrammatica; una chiarezza di musica come arte descrittiva, per la quale vene fatto di pensare ad uno scudo sublimamente lavorato; e infine un sentimento, un’esperienza, un evento dell’anima, sublime e straordinario, nell’abisso della musica, che fa a Wagner  il più grande onore…Cose del genere si trovano solo in Dante , altrimenti in nessun altro. Vi è mai stato un pittore che abbia dipinto un così malinconico sguardo d’amore come Wagner con gli ultimi accenti del suo preludio?” Sicuramente, uno dei più lusinghieri elogi del Preludio del Parsifal. E che noi condividiamo completamente dopo aver assistito anche a questa sublime Die Walküre, nuova riuscita, quanto chiacchierata produzione del Teatro alla Scala.


Le fotografie dello spettacolo sono di Brescia/Amisano – Teatro alla Scala.

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