Sante Lancerio
La testa a tavola

La natura naturale

Dal vino alla pasta, troppo spesso il termine “naturale” nasconde procedimenti "normali". E non cancella il rischio delle sofisticazioni. Lo diceva anche Plinio...

Che cosa differenzia un cosiddetto “vino naturale” da un altro vino? Niente. Perché il vino è naturale per definizione se nasce da un processo naturale come la fermentazione. Processo che peraltro non riguarda solo l’uva, ma in genere tutta la frutta zuccherina.

Poi, possiamo discutere il processo di questa trasformazione, se la fermentazione è spontanea o favorita (ma voi considerereste un parto meno naturale se per accelerare il processo alla paziente venisse iniettata ossitocina? E la figlia e il figlio nascitura non sarebbero comunque frutto di un processo naturale?), se il processo di vinificazione è fatto con lieviti indigeni o meno, tante soluzioni differenti che fanno il vino diverso dall’altro, per procedura della vinificazione e per risultato finale. Ovviamente, se questo processo segue le rigide norme a tutela del consumatore. Se è una frode, e il prodotto è fatto con le cartine o processi non naturali come l’aggiunta di metanolo (vedi anni ’90) allora sì, saremmo di fronte ad un vino non naturale.

Stabilito, almeno per mia convinzione, che il vino si ottiene tramite un processo naturale che può essere fatto più o meno bene grazie alle conoscenze che ci ha fornito Pasteur e che hanno dato vita all’enologia, l’altro elemento che viene da chiederci è: una bevanda che sa di aceto, è torbida e emana un odore poco gradevole, piò essere apprezzata solo perché all’uva viene chiesto di fare tutto da sola? Per fortuna, questa prima fase pioneristica è in fase di abbandono. I vini naturali, che siano biodinamici o altro, oggi vengono immessi sul mercato con chiarificazioni e filtrazioni per caduta, stabilizzati con i solfiti naturale, e sì, possono mantenere una macerazione un po’ invadente, ma in un contesto di qualità per il consumatore a cui non viene più richiesto una fede in un prodotto che alla fine risponde ad un solo concetto: il marketing.

Negli ultimi anni abbiamo assistito a un processo di ineducazione del consumatore. Gli abbiamo insegnato che il lattosio fa male (cosa peraltro non vera), ma al contempo non gli abbiamo detto in quali prodotti può esserci e in quali no, educandoli ad una conoscenza della natura e dei suoi processi per ottenere cibo, sano e nutriente. E così troviamo al mercato gente che chiede al norcino parmigiano senza lattosio, quando il parmigiano è sempre senza lattosio. O, peggio, il glutine, diventato il male assoluto. Continuiamo, per fortuna, a mangiare la pasta, però poi compriamo buste con sopra scritto senza glutine anche per prodotti che di base non lo contengono.

Sia chiaro, la sofisticazione alimentare esiste, possiamo ricordare la mucca pazza o in precedenza l’uso degli estrogeni per aumentare il peso dei bovini o il mercurio ritrovato nei pesci, o il metanolo che abbiamo ricordato sopra. Ma c’anche una componente umana: Corrado Barberis, uno dei massimo studiosi di sociologia rurale scomparso nel 2019 ha avuto modo di raccontarci come Plinio si lamentasse come i romani che avevano portato gli asparagi, con la loro produzione, ad essere ben più consistenti e “robusti” di quelli selvatici, o il medico dei principi di Acaia, Giacomo Albini, nel 1300 lamentasse l’incarceramento degli animali, onde evitare che perdessero peso e la carne, al contrario, fosse più grassa, a vantaggio dei benefici economici dei loro proprietari. Forme ancestrali, diremmo oggi, di sofisticazioni. Tutte naturali.

Quello che serve è la conoscenza.


L’immagine della rubrica è di Roberto Cavallini.

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