Sante Lancerio
La testa a tavola

La favola del Ruché

Da Luigi Veronelli a Mario Soldati: storia del Ruché di Castagnole di Monferrato, un vino che affonda le radici nel Medioevo e racconta l'importanza della biodiversità

L’aneddotica vuole che sia stato Luigi Veronelli a riscoprire il Ruchè di Castagnole di Monferrato. Una delle 19 Docg del Piemonte. Si dice che il noto conoscitore di vini sia stato dissetato da un parroco che produceva a proprio uso nel vigneto dietro la chiesa dove svolgeva le funzioni religiose. E Veronelli ne rimase talmente entusiasta che si adoperò nel promuoverlo come anche nel mantenere limitato il territorio nel quale poteva essere prodotto. Una vera e propria cru alla francese, una UGA come oggi in Italia vengono chiamate le particelle di territorio da cui proviene uno specifico vino, una peculiarità tale che vale la menzione in etichetta.

In realtà il Ruchè è conosciuto e coltivato fin dal medioevo nella sua zona di elezione, il Monferrato in particolare a Castagnole. Ad un prelato, Don Giacomo Cauda, viene riconosciuta la riscoperta, come riportato nel 1986 nel catalogo dei vini d’Italia edito da Mondadori realizzato appunto da Luigi Veronelli, che però citava questo vitigno e relativo vino già nel 1960 nella Guida Bolaffi. In questo caso però la “Vigna del Parroco”, così si chiamava la cantina che lo produceva, ancora non era conosciuta come tale.

Come abbiamo visto in questa storia si mettono insieme verità storiche e leggenda. Di certo è che a metà degli anni ’70 l’apprezzamento verso il Ruchè era ancora un po’ tiepido. Mario Soldati, amico e collega di Luigi Veronelli, e autore di uno dei testi sacri dedicato al mondo della viticoltura, Vino al Vino, così descrive il suo incontro con il Rukè: «Proprio perché giudicano importante solo la Barbera, i Meda (i produttori ai quali è in visita Mario Soldati ndr) cominciano con un altro vino, il Rukè. La coltivazione delle uve del Rukè sta per essere abbandonata, rendono poco e i affs (le api) se le mangiano tutte. I Meda fanno ogni anno una sola botte di Rukè, ma più di 35 ettolitri di Barbera. Proviamo un Rukè ’74, gradi 15 e un Rukè ’72, gradi 14,5. Scurissimo, profumatissimo, denso, duro, potente, non dolce ma neanche secco. Maggiora (Gino scrittore ndr) dice: “Mandorlato”. Sbaglierò, ma il Rukè mi è antipatico. Ripido: tutto uno scalino».

Siamo nel 1974, Soldati parla del Ruché nel terzo capitolo del suo viaggio attraverso l’Italia del vino, cominciato nel 1968 e che furono conseguenza di quei documentari dedicati al cibo genuino che la RAI trasmise alla fine degli anni ’50, primi esempi di documentari enogastronomici. Oggi ovviamente le modalità di produzione del vino si sono ulteriormente affinate e quella “ripidità” di cui parla Mario Soldati è stata smussata a favore di una maggior piacevolezza. D’altronde anche la Barbera non è più quella di una volta, quella rappresentata in fiasco nelle mani di papà Trinchetto, il babbo italiano di Braccio di Ferro.

Quello che però ci racconta il Ruché di Castagnole di Monferrato è che nel nostro paese esiste una biodiversità che lo rende unico in Europa. Ed esiste una varietà di vitigni, alcune centinaia, che caratterizzano profondamente il nostro territorio. Alcuni hanno una tale specificità legata al terreno dove sono coltivati, come il Ruchè, che possono essere chiamati così solo se prodotti in quella particella di territorio.

Sia chiaro, la diversità si è mantenuta anche grazie alla frammentazione territoriale di un paese che si è trovato finalmente unito da poco più di 150 anni. La Francia di Re Sole e dei suoi successori hanno selezionato i vitigni e le aree di coltivazione, tanto che a territorio corrisponde vitigno. Una scelta che ha permesso ai vini francesi di conquistare il mondo a livello qualitativo e commerciale. Ma questa diversità tutta italiana non solo ha permesso al nostro paese di tornare ad essere il primo produttore al mondo di vino, ma ne potrà rappresentare un fattore di crescita importante.


L’immagine della rubrica è di Roberto Cavallini.

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