Ida Meneghello
Diario di una spettatrice

Indagine sulla Duse

Sonia Bergamasco ha realizzato un bel film documentario su Eleonora Duse. Il ritratto di un mito e di un modo di essere. Ma anche un grande omaggio al teatro

A Sarah Bernhardt mancava una gamba. A Eleonora Duse mancava un polmone. Eppure, nonostante queste gravi menomazioni, sono state le più grandi attrici sulla scena teatrale mondiale. Con una differenza fondamentale. «Quando la Bernhardt saliva sul palcoscenico vedevi una grande attrice. Quando la Duse saliva sul palcoscenico vedevi una grande donna. Perciò era superiore alla Bernhardt». Parola di Lee Strasberg, fondatore dell’Actors Studio e creatore del mitico “metodo”, che la Duse la vide davvero sulle tavole del Broadway Theatre nella tournée newyorkese del 1923-24 alla fine della quale la Divina morì (coincidenza: anche la Bernhard morì alla fine di una tournée nel 1923).

A cento anni dalla sua morte, doveva arrivare un’altra attrice italiana cresciuta col mito della Duse fin dai primi passi nella scuola del Piccolo Teatro, Sonia Bergamasco, per realizzare due obiettivi: affrontare la sua prima regia cinematografica e sottrarre la Duse all’abbraccio mortale che (solo in Italia) l’ha ridotta a un unico ruolo, quello dell’amante di Gabriele d’Annunzio. Bergamasco trova il coraggio di fare entrambe le cose e con la meticolosità di una investigatrice provetta, si mette sulle tracce di un mito che il celebre verso del poeta Attilio Bertolucci descrive alla perfezione: «assenza più acuta presenza».

Duse The Greatest, il film scritto e diretto da Bergamasco, ha certamente la cifra del documentario nel senso proprio del termine: perché documenta passo per passo la difficile ricerca delle origini e dell’eredità di una donna diventata mito che ha ispirato generazioni di attori in tutto il mondo, da Charlie Chaplin a Marilyn Monroe ad Anna Magnani fino alle giovanissime contemporanee, sembrando tuttavia a chi la vide in scena priva di un metodo di recitazione, di una “tecnica”. Insomma un mito paradossale o forse un mistero.

Sulle tracce di questo mistero, Bergamasco fruga negli archivi, tra copioni e vecchie foto, e scova filmati dimenticati: Luchino Visconti intervistato da Lilla Brignone che racconta l’impressione che ne ebbe da bambino, Lee Strasberg che la evoca e dice che lei sul palcoscenico non faceva niente, non recitava, lei “era” e la sua presenza invadeva il teatro come un miracolo, perché la sua voce era un filo per via dell’enfisema, e allora capisci che il suo “method acting” nacque da quella folgorazione. E poi ripesca pezzi di storia del teatro italiano come Emma Gramatica che da piccola dormiva nel suo camerino dentro il baule in attesa che finisse la recita. E scova foto, montagne di foto trovate rocambolescamente anche da suo marito Fabrizio Gifuni, scatti che l’hanno resa immortale, con quei gesti inconfondibili, la testa alta come dovesse sempre alzarsi in piedi e dominare il mondo, le bastava un tremito e l’immobilità di una mano per far morire in scena la Signora delle camelie.

E lettere, un’infinità di lettere che la raccontano più dei libri che l’hanno celebrata, in cui lei dice che detesta la fama, l’anti diva per eccellenza non ha mai concesso un’intervista perché raccontare la vita che c’è dietro l’attore è osceno. Piuttosto confessa che il suo momento perfetto non è sul palcoscenico davanti al pubblico adorante e applaudente, ma quando varca la soglia dell’entrata degli artisti e percorre un corridoio buio e sente le voci della sua compagnia che sta provando, senza costumi di scena, con gli abiti di tutti i giorni. Quella era la felicità per Eleonora Duse.

È davvero un paradosso il suo mito, di lei ci è rimasto solo un film muto di 30 minuti, Cenere, tratto dall’omonimo romanzo di Grazia Deledda, chiunque può trovarlo in rete. Nell’intervista che chiude il documentario Valeria Bruni Tedeschi – che la impersona nella nuova pellicola di Pietro Marcello a lei dedicata e attualmente in lavorazione – ne parla con toni struggenti come di una presenza viva e quotidiana. E così la evocano le attrici chiamate da Bergamasco a leggere le sue lettere e a interrogarsi sulla sua eredità.

La regista ha definito questo film «un ritratto impossibile». Ma è proprio grazie alla sua “impossibilità” che lei può indagare sul corpo della donna che recita, un secolo fa come oggi. «Ho cercato di raccontare qualcosa del nostro mestiere, che è complesso, difficile, segreto, concreto. Il corpo è lo strumento dell’attore e il corpo è al centro di questa storia, quello di lei e di chi le è stato testimone».

Duse fu una donna libera che ebbe il coraggio di lasciare il marito dopo aver avuto una figlia, di scegliere amanti famosi come Arrigo Boito e d’Annunzio, amica di Sibilla Aleramo e Isadora Duncan rinunciò presto alle scene e scelse la solitudine nel suo ritiro ad Asolo. Ma la curiosità per il cinema fu più forte della sua diffidenza, capì subito che il nuovo mezzo avrebbe travolto tutto, a cominciare dal teatro, ma accettò di farlo. Ed è proprio grazie a una pellicola di mezz’ora che oggi la vediamo com’era: nel film lei non recita mai in favore della camera, continua a sottrarsi, rifiuta i primi piani, si mostra senza trucco e coi capelli bianchi, vera fino all’ultimo respiro. I suoi gesti, le sue mani, perché della sua voce non ci resta niente, sono sufficienti a farne un mito assoluto che vive ancora tra noi. Nessuna sarà più come lei, Duse la Divina, Duse la più grande.

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