A Palazzo Bonaparte di Roma
Il dolore di Munch
La grande mostra retrospettiva dedicata a Edvard Munch testimonia tutta la parabola creativa del grande artista. Anche se manca il suo capolavoro, "L'urlo"
Non venite a cercare L’urlo: il quadro del 1893, che ha consacrato la fama planetaria di Edward Munch (1863-1944), proiettandolo trentenne al successo, non è arrivato in prestito dal museo di Oslo. A sostituirlo c’è una piccola, bellissima grafica in bianco e nero – tecnica che il pittore norvegese ha praticato e innovato – che ne riproduce le figure e l’impianto. Senza quell’esplosione di ondate di colori al tramonto che – come lui stesso rievoca – ha assalito e guidato come un suono accecante il suo udito e il suo pennello.
Un vuoto di attese che gli organizzatori della grande mostra antologica Munch il grido interiore, portata a Roma fino a giugno dalla società Arthemisia, dopo un gettonatissimo debutto a Milano, si sono preoccupati di colmare, allestendo in una sala del secondo piano di palazzo Bonaparte un corridoio immersivo di schermi e di specchi sui quali scorre e si anima una marea avvolgente di variopinti dettagli in movimento.
Uno spettacolo di effetti speciali – già collaudato in altre occasioni come un marchio di fabbrica – che qui però fa leva sul senso sbagliato. Per sintonizzarsi sul grido di Munch e capire perché è diventato un’icona del disagio di vivere per tutte le epoche e tutti i palati bisogna guardare aprendo le orecchie agli echi di emozioni e paure profonde che ci esplodono dentro ed attorno. La folle e inarrivabile bellezza della Natura come un rimbalzo della follia, del disordine insopportabile che pervade l’anima e il mondo. Riassunto nelle vibrazioni di una gola spalancata a cercare uno sfogo per dire. Come può capitare, capita magari di fare o desiderare a ognuno di noi per liberarsi in solitudine di una sensazione di impotenza. di frustrazione, di gioia, di rabbia. E poi riprendere il cammino su quel ponte di transito quotidiano, su cui ci sentiamo sospesi. Mai nessuno aveva intercettato con tanta sintetica evidenza quella miscela di ribellione e fragilità che si è inciso nell’immaginario collettivo come una profezia da Cassandra. che anticipava gli orrori e le cadute del Novecento alle porte. Al di là delle intenzioni dell’autore che attraversa a distanza due guerre mondiali. Senza rappresentarne gli orrori.
È questo il segreto della sua ascesa all’Olimpo dei pittori di genio, di cui questa mostra, la più ricca mai vista in Italia, ci consegna le chiavi. Raccontandoci quella sua vita tormentata e dolente in tutti i suoi intrecci visionari e creativi. E riscrivendola per noi visitatori di un altro tempo, impaginandola capitolo per capitolo per invitarci a sfogliarne le pagine a sbalzi come si sfoglia il diario illustrato di una vicenda umana scritta dallo stesso autore e consegnata ai posteri in un susseguirsi di visioni e riflessioni, confessioni e camuffamenti di fronte a uno specchio.
Facce e corpi che cambiano in continuazione ma sembrano riportarci sempre allo stesso punto: l’io intrigante e dolente di Munch che in quella danza di ossessioni e fantasmi si è immerso e ha continuato a ritrarsi .fino a quando non ha ceduto al comprensibile desiderio di tenere a bada la sua inquietudine e governare i vantaggi del suo successo commerciale. Smarrendo forza e ispirazione.
Rattrista anche se non incanta più quel canto del cigno. Un crollo di qualità e intensità che scandisce l’ultimo ventennio della sua carriera. Quasi inguardabili per il distacco allegorico e il manierato simbolismo le ultime prove della sua carriera: quegli enfatici corpi nudi sulla spiaggia, quelle scene di contadini al lavoro nei campi. Quei bozzetti per la decorazione del nuovo teatro di Oslo, la committenza pubblica che lo consacra.
Raro che una mostra-evento dia tanto spazio a questa produzione in tono minore, con cui il museo di Oslo onora e celebra il suo debito di riconoscenza per gli oltre mille lavori che Munch ha lasciato in eredità alla sua città natale. Ma è una documentazione che risulta a suo modo preziosa per inquadrare meglio la complessità del personaggio. Liberare il visitatore dalla soggezione acritica che un’antologia di troppi decantati capolavori ti impone E ancorare la rivisitazione di Munch alla misura da romanzo della sua vicenda umana.
Ce lo suggerisce proprio la galleria di autoritratti che il copione di questa esposizione romana ha raggruppato in un capitolo a sé. Dal primo, una litografia del 1893, che lo presenta in scena nell’enigmatica, quasi imperiosa maschera dei suoi rampanti esordi professionali. All’ultimo del 1943, concluso poco prima della morte; un vecchio malinconico e smagrito dritto in piedi, spalle e corpo fasciati in un abito che sembra il pigiama di un detenuto che ha perso ogni velleità di evasione. Un attimo di verità che riabilita la forza della sua pittura più tarda. proprio quando l’autore si confronta con se stesso, si raffigura maschera senza veli, da capro espiatorio delle debolezze proprie e della società in cui vive.
Tutti i suoi quadri migliori non sono in fondo che autoritratti. Anche quando non compare in palcoscenico è sempre di sé che ci parla. E in se che trova di volta in volta segni e colori. Con una pittura di getto, sporca, senza sfumature, che i critici più accademici e perbenisti bolleranno con il marchio di non finito. Senza capire che è proprio quel non finito il colpo di genio. Il tratto più inconfondibile della sua inquieta creatività.
Qualunque sia il tema che affronta. Due i più ricorrenti.
Il primo è il rapporto con la morte, che rende attualissimo e sconcertante il suo messaggio pur così fortemente datato in questo terzo Millennio dell’Occidente, ammalato di illusioni tecnologiche che vorrebbe condannare a morte la morte e la riveste di altre paure.
Ai tempi di Munch non era così. La morte era un rito domestico di assistenza e di veglia, un’interruzione, un trauma condiviso di sospensione che sanciva la continuità della vita. Munch non si sofferma a descrivere lo strazio del corpo; l’attesa dell’agonia e l’immobilità senza scampo avvengono su un letto che non è mai in primo piano, quello scarto irreparabile lo affida alle figure di amici e parenti che ingombrano la stanza o il salotto vicino, un controcanto di voci stampato su volti impassibili, un coro tra commedia e tragedia di cui l’artista si mette in ascolto. Come farà con l’Urlo.
Il dolore del lutto non è per Munch solo spettacolo del presente, ma un passato che si protrae nel futuro nel culto quasi ossessivo dei ricordi che tornano. E sono tanti quelli dolorosi che si trascina appresso la sua vita in famiglia. La mamma morta quando aveva appena cinque anni. La sorella più piccola portata via come un fiore appassito da una tubercolosi. La stessa malattia che infetta i polmoni di Munch. Una maledizione genetica ereditata come la fragilità del sistema nervoso che porta attacchi di furia o crolli di depressione: un’altra sorella finirà in manicomio, lui Edward, nel 1908, per evitare un internamento coatto dovrà trascorrere mesi in una costosa clinica di riabilitazione psichiatrica. Può permetterselo. Già ricco di famiglia è ormai un pittore che fa mercato e deve solo mantenere quotazioni e reputazioni.
Tra gli alti e bassi dei suoi malanni le tappe di un’inarrestabile scalata verso la messa a punto del suo bagaglio di artista e intellettuale aggiornato e al passo coi tempi. La spinta istintiva alla trasgressione mette radici più solide nel circolo bohemien che frequenta nel centro vecchio di Kristiania, capitale di un regno autonomo di Norvegia in gestazione che poi verrà ribattezzata con il nome vichingo di Oslo. Dispute che gli dischiudono le porte liberatorie della psicoanalisi, sbronze e bagordi che gli fanno conoscere il piacere sfrenato del vino e del sesso.
Una scuola di cultura e di vita indimenticabile nelle interminabili nottate ai tavolini di quel tabarin alla moda, che Munch immortala in una serie di schizzi dal vivo e di quadri a memoria che butta giù nel corso di un decennio. L’ultimo datato 1907 è tra i lavori più intriganti di questa mostra romana: il verde che illumina la scena sembra l’omaggio ad un giardino di primavera che sta per fiorire, Munch stesso ritrae ai margini il suo profilo immerso in una corolla di impasti giallastri germinata da un tronco d’albero, di fronte il volto rosso di Stanislaw Przybyszewski, scrittore polacco che gli ha fatto da guida e apripista a Berlino, dove la sua carriera decolla in una serie di mostre che suscitano scandalo, e a Parigi, dove perfeziona il suo stile confrontandosi con le opere delle avanguardie postimpressioniste.
Ai tavoli di un tabarin incontra Tulla Larsen, bella, colta, elegante, ricca, libera e senza tabù. Il rapporto più importante della sua vita su cui avrà un impatto devastante. Passione e sesso travolgenti, fughe e ravvicinamenti. Incomprensioni e tormenti che si prolungano oltre il loro burrascoso addio. E il modello che ispirerà, nel bene e nel male, tutte le sue visioni della donna e dell’amore. Una trappola di disagio e conflitti che a poco a poco offusca e soppianta l’idea di dolce e poetica condivisione che aveva consegnato in pittura alle sue numerose varianti sul Bacio: masse di colori e di ombre, mondi che si fondono in un abbraccio.
Il passaggio dall’idillio all’inferno si cristallizza in un’altra serie, battezzata da un titolo non suo di cui Munch si invaghisce e si appropria, Vampira: un campionario di versioni di date diverse, cui la mostra riserva un eloquente siparietto. Anche qui un abbraccio, un uomo che reclina il capo affidandosi alla donna che lo avvolge tra le sue braccia. Occhio ai capelli, rossi come quelli di Tulla che si riversano sulle spalle e sul collo dell’amato come striature di sangue. E occhio al naso appuntito, altro dettaglio rubato a Tulla: sotto quella lama si intuisce il morso che dilania la carne. Il primo olio è del 1893: lo sfondo una penombra sfumata, il braccio di lei è morbido e color della seta L’ultimo del 1918. oltre un quindicennio dalla rottura: lo sfondo è un bosco, la pennellata si è fatta ruvida e nervosa, l’arto è quello di una virago.
L’abilità del pittore al servizio di un super-io maschilista, vendicativo, narciso, e calcolatore: dietro quel ripetersi di inquadrature e soggetti c’è sempre la volontà di portare all’incasso a colpo sicuro il favore che il quadro inaugurale della serie ha incontrato. Come è capitato con l’Urlo. Munch è un artista che non dimentica mai di monetizzare il suo talento.
E un artista di eccezionale talento ma un uomo così arrogante nelle sue debolezze, cui è difficile accordare simpatia. E credito di verità alle storie che affida ai suoi quadri. La sua storia con Tulla Larsen, anche lei non certo una santa, naufraga su uno scoglio invalicabile. Lei vorrebbe sposarsi, lui no. Non vuole trasmettere ai figli la maledizione delle malattie che ha ereditato. Ma poi la accusa di stargli troppo addosso, di indebolire con le sue frenesie erotiche le scarse energie che alimentano la sua vocazione d’artista. Più volte ha tentato di lasciarla, ma è troppo geloso per farlo. L’ultima scenata, una sera del 1902, rischia di sfociare in tragedia: durante la lite lui impugna una pistola e si spara ad una mano. La sinistra, guarda caso quella che non usa per dipingere. Una ferita lieve ad un dito ma tanto sangue. Per evitare lo scandalo lei ripulisce tutto e lo porta in ospedale, dove sarà operato: la versione ufficiale è quella di un colpo partito mente ripuliva l’arma.
La reputazione è salva. Ma Munch continua a rimuginarci su. E a ribaltare nelle sue tele la versione dei fatti e le parti. Lui una vittima, nudo su un letto inondato di sangue, il cuore trafitto da una ferita. Lei, in piedi, nuda, i peli del pube esibiti senza pudore, un Assassina. La battezza così, come un cronista di nera in vari quadri. Fino a quello del 1906, esposto in una mostra a Parigi che cambia titolo e messaggio, per sfruttare gli umori e la memoria di quel pubblico straniero. La morte di Marat, classico e sobrio capolavoro di David, trasformata dalle sue pennellate convulse nella testimonianza in diretta di un mitico delitto efferato. La Larsen retrocessa a Camilla Corday, una donnicciola qualunque, una giustiziera perbenista e ipocrita. Lui a incarnare con la propria morte la scomparsa di un rivoluzionario tradito. Insulti e capovolgimenti di realtà che sembrano anticipare i deliri di fake news e malignità da tifosi, che la nostra era dei social ha sdoganato.
Le cicatrici di quell’amore così malamente concluso son dure a rimarginarsi. Generano una crisi che Munch affoga dell’alcool e nelle depressioni che solo il ricovero volontario in una clinica psichiatrica riuscirà ad arginare. In quei mesi di degenza Munch si impegna a rinunciare per sempre all’ossessione di rimpadronirsi di quella donna che l’ha stregato e dà un taglio netto anche al vizio del bere che lo sta devastando. Impiegherà un altro ventennio per riuscirci del tutto. Ma quelle rinunce diventeranno probabilmente il dazio irreparabile che scaricherà sulla sua pittura e in vecchiaia, che riportata in vista nell’epilogo di questa mostra a me appare rigida, costruita, estranea. Manierata.
Nell’isolamento dei suoi ultimi anni, in quella Norvegia congelata dall’invasione nazista, Munch diventa il custode in pensione delle sue glorie passate e delle sue opere che non possono più circolare perché bollate come prove di arte degenerata. E il suo sguardo non riesce più a penetrare quella terra invisibile che prima aveva intravisto e teorizzato come un aldilà oltre la percezione che generava fantasmi di angoscia e rabbiosa disperazione. Anche lui è diventato uno spettro. E il suo grido è un sussurro malinconico e malandato di sconfitta e rimpianto.


