Letterature diverse
Rivoluzione swahili
L'incontro con Farouk Topan, grande studioso di lingua e letteratura swahili apre un ciclo di interviste sulle culture "altre”. «Ecco i segreti di una poesia rivoluzionaria»
Con questa intervista iniziano una rubrica in collaborazione con il Dipartimento di Africanistica dell’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, per raccontare una volta al mese i protagonisti della letteratura in lingue africane. Questa rubrica, così come questa intervista, è stata pensata col docente di letteratura swahili e lingue bantu Roberto Gaudioso. Questo mese parleremo con Farouk Mohamed Hussein Tharia Topan, direttore del Centro Swahili presso l’Università Aga Khan. Topan è uno specialista della lingua e della letteratura del popolo swahili. Ha insegnato all’Università di Dar es Salaam, all’Istituto di Studi Ismailiti e alla Scuola di Studi Orientali e Africani. Topan scrive anche opere teatrali.
Mi parla della sua infanzia a Zanzibar?
Sono nato a Zanzibar quando era ancora un protettorato inglese e la mia cittadinanza all’epoca era “cittadino protetto inglese”. Ho studiato sull’isola. Ho molto amato la scuola, anche se gli studi erano gli stessi che quelli in Inghilterra, perché nelle colonie non si studiava la cultura locale. Studiavo Shakespeare e la letteratura inglese, non quella swahili. Oltre all’inglese si studiava anche una lingua indiana, il gujarati. Quindi alla fine ho imparato tre lingue, a casa il Swahili, mentre a scuola l’inglese ed il gujarati. Tra il 1959 e il 1960 sono stato in India in un college gestito da padri Francescani, a Bombay. Quando sono tornato un anno dopo a Zanzibar, ho vinto una borsa di studio per andare in Inghilterra. Arrivai in Gran Bretagna che avevo 18 anni, terminato il liceo, mi sono iscritto alla SOAS di Londra. Dal ‘62 al ‘65 ho studiato lì.
Era lì quando ci fu la rivoluzione?
Sì, ero a Londra quando l’isola venne unita alla Tanzania. La rivoluzione fu un momento di grande preoccupazione, ero lontano dalla mia famiglia e ricevevo qualche informazione ogni due o tre giorni, attraverso un network di amici.
Qual è il suo pensiero su quegli anni?
La rivoluzione zanzibarina è un argomento molto complesso. L’arcipelago di Zanzibar era un piccolo stato, con tantissime comunità diverse. C’erano Swahili, che già di per sé sono un popolo misto, con discendenti africani, arabi, persiani e indiani. Ma c’erano anche Arabi e Indiani, in particolare, Indù, Parsi e Goani, mischiati con Portoghesi. Vi erano poi Inglesi e Tedeschi. Semplificando impropriamente alcuni ci vedono una rivoluzione di classe ed etnica: Africani contro Arabi. Ma vi erano anche ragioni geopolitiche più complesse, erano coinvolti il Tanganica di Julius Nyerere e gli inglesi che avevano da poco dato l’indipendenza sia a Zanzibar che al Tanganica, che erano due stati diversi. Gli Inglesi non aiutarono il sultanato di Zanzibar, quando i rivoluzionari unirono il paese al Tanganica.
Fu una rivoluzione pacifica?
Ci furono molti morti e tanta gente scappò dall’isola, soprattutto arabi e indiani. Andarono in Kenya, India e Inghilterra. Il sultanato che governava l’isola finì per sempre, unendosi con il Tanganica, diventando Tanzania. Da sempre si discute su cosa accadde e se l’Unione fosse legale, perché il popolo non venne consultato, ma è quello che accadde.
In seguito ci furono tensioni?
Fin da subito, dopo l’unione, ci furono tensioni, perché furono decise da Nyerere e dal governo rivoluzionario di Zanzibar, senza consultare la gente. Ancora oggi è un processo lungo e non del tutto portato a termine. Per alcuni ha aperto opportunità, per altri no. Anche perché negli anni il governo ha accentrato il suo potere. Oggi hanno formato una nuova commissione per tentare di risolvere queste tensioni.
Lei è uno dei più grandi intellettuali swahili, forse uno degli unici della costa ad aver supportato le innovazioni in campo letterario. Me ne parla?
Sono stato molto fortunato, perché a 27 anni sono stato assunto come docente all’Università di Dar es Salaam, ero poco più grande degli studenti e ci capivamo bene. Insegnavo letteratura swahili, poesia, teatro e narrativa. Eravamo fortunati perché molti scrittori vivevano nella capitale e li invitavo in classe a esporre le loro opere e a dibattere con gli studenti. Questo ispirò molti universitari. Avevo studiato letteratura swahili alla SOAS di Londra, ma insegnare nel paese in cui la lingua è parlata, apre delle opportunità diverse.
Già dalla prima classe nel 1968, su 12 studenti, almeno due divennero importanti scrittori e professori di Swahili, Ibrahim Hussein e Pennina Mlama. Il secondo anno, ebbi invece come studente Euphrase Kezilahabi, che divenne uno dei più rivoluzionari poeti e scrittori swahili.
Mi parla di loro?
Hussein e Kezilahabi mi davano i loro manoscritti da leggere. Hussein mi diede da correggere le opere Alikiona («L’ha visto») e Wakati Ukuta («Il tempo è un muro»). Pensavo di dargli semplicemente una mano, ma quando le ha pubblicate, gentilmente ha fatto scrivere in copertina che erano editate da me. Entrambi gli scrittori stavano rivoluzionando il modo di fare poesia in swahili. Quando lessi il manoscritto di Kezilahabi, compresi subito che avrebbe creato controversie con i tradizionalisti, perché per secoli si erano usate sempre le stesse forme poetiche, mai mutate. Le rime erano fatte in modo tale che potessero essere recitate secondo il canone tradizionale. Di colpo un libro di un universitario rivoluzionava tutto.
Come vede questo dibattito tra tradizionalisti e riformisti, difese Kezilahabi?
Per difenderlo decisi di scrivere un articolo pubblicato su una rivista della SOAS, ci fu molto dibattito. Scrissi anche un’introduzione all’opera di Kezilahabi, dicendo che bisognava accettare questa rivoluzione, perché la letteratura Swahili doveva aprirsi al mondo, non rimanere statica. Quando la letteratura cresce, è una ricchezza. Ho così incoraggiato a usare versi liberi, che non fossero più quelli canonici. Se uno scrive in versi tradizionali e fa piccoli errori, per dire che la poesia non era buona, si diceva che era “guni”, imperfetta, non rispettava il canone. Una volta a Zanzibar, una persona mi chiese cosa pensassi dei nuovi poeti che sponsorizzavo. Gli dissi che era un nuovo modo di fare poesia. Lui rispose che non meritavano nemmeno il nome di poeti, perché non avevano nulla a che fare con la poesia che gli antenati ci avevano tramandato. Un’altra persona presente disse: chiamiamoli semplicemente “guni”. L’altro gli rispose: “No, non meritano nemmeno di essere chiamati così, perché per storpiare la poesia tradizionale, bisognerebbe almeno farla male, mentre questi fanno altro”.
I tradizionalisti accusavano la letteratura swahili di essersi occidentalizzata?
Gli studenti a scuola avevano studiato letteratura inglese, quindi erano stati esposti a letterature diverse, e dunque hanno innovato la tradizione swahili inserendovi nuove forme. Rappresentarono quindi una via “swahili” di andare oltre. Quello che i tradizionalisti non capivano, era che questo era già accaduto. La poesia tradizionale era già influenzata da quella araba. C’erano alcune differenze, nei poemi arabi si regolavano le vocali corte e lunghe, nella poesia swahili era più una questione di quante sillabe ci sono in un verso. Ma il fatto di ispirarsi alle culture con cui si viene a contatto, facendola propria, è in realtà da sempre una tradizione swahili.
Le altre letterature tradizionali del paese, stanno lentamente scomparendo a favore del swahili, cosa ne pensa?
Dal momento che il Swahili è stato scelto come lingua nazionale in un paese in cui ci sono più di centoventi lingue, molte altre, specialmente quelle meno parlate, stanno pian piano scomparendo. Soprattutto in un paese in cui ci sono molti matrimoni tra persone di culture diverse. Questo era esattamente quello che voleva Nyerere, la creazione di un paese unito, dalla cultura più possibile uniforme. Una delle conseguenze non volute di questa politica, è stata che questi linguaggi hanno perso terreno. Soprattutto nella letteratura.
Per scoraggiare il tribalismo, rese illegale l’autorità dei capi tribù. Se non ci sono i capi, le letterature tribali, poemi e canzoni associate ai capi tribù, alle loro ritualità, tendono a scomparire.
Questo ha cambiato tutto?
È una questione centrale, per esempio Ebrahim Hussein fece un dottorato in Germania dell’est, fu influenzato da tutta la letteratura che studiò lì. Nelle sue opere si percepisce una certa influenza europea. Vi è anche Said Ahmed Mohamed, che ha lavorato per molti anni all’università di Bayreuth, anche lui ha influenze europee, perché inserisce tematiche politiche, come lo sfruttamento delle persone. Denunciava anche come in Est Africa arrivassero, al tempo, solamente le merci che gli europei non volevano. C’è anche un’opera molto interessante chiamata La Seconda Conferenza degli Uccelli scritta da Amandina Lihamba.
Me ne parla?
Parla delle relazioni tra quello che al tempo veniva chiamato il primo mondo, il ricco Occidente ed il terzo mondo, i paesi colonizzati. Riprende in chiave moderna La Conferenza degli Uccelli, opera medioevale del sufi persiano, Farid Al Attar.
Solo che l’opera di Aliamba non è sufi, ma politica. Gli uccelli non cercano Dio, ma vogliono sapere cosa gli uccelli del Nord ricco vogliono fare per quelli del Sud povero. Durante la conferenza, gli uccelli del Nord si concentrano subito su chi debba essere il capo, con l’uccello inglese che si propone immediatamente, mentre gli uccelli del Sud vorrebbero parlare di cibo. Alla fine arrivano ad un accordo, gli uccelli del Sud si impegnano a mandare al Nord le loro piume ogni anno. E non basta gli devono anche mandare i pulcini per fargli educare. Mentre il Nord manderà degli esperti nel Sud per dirgli cosa fare. Questo era un modo molto innovativo di scrivere in swahili. Purtroppo è stato tradotto solamente in inglese.
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