A proposito di “Blu di metilene”
I misteri di Asilah
L'ispanista Francesco Tarquini ha costruito un romanzo intorno a Asilah, la città con dodici torri e cinque porte, a Sud di Tangeri, dove si mescolano arte e misteri
Conviene che il lettore faccia propria la citazione da Antonio Di Benedetto “Todo viaje es una mitología” che Francesco Tarquini, critico e traduttore dall’ispano-americano, ha apposto come epigrafe alla sua seconda opera di narrativa, Blu di metilene (Il Labirinto, 100 pagine, 15 Euro), perché il principio si mostrerà valido anche per il viaggio tra le pagine di un libro fatto di molti viaggi che, per copertina e titolo, sembra affidarsi ai soli nome e immagine di un suggestivo colore dietro il quale, come vedremo, abita l’universo.
In apertura, meno lunga di una pagina, una sorta di prefazione non dichiarata e in corsivo che, mettendo in gioco il duplice registro prospettico del navigante che vede la terra dal mare e dello stanziale che vede il mare dalla terra, con puntualità argomentativa suggerisce il rispecchiamento come utile condizione per affrontare il testo.
Il primo capitolo (in realtà sono brani di scrittura distinti da una grafica che ne segnala inizio e fine) comincia con una domanda, e che la risposta contenga tre domande, ribadisce subito la posizione centrale del gioco dei rispecchiamenti i quali, per statuto, devono farsi così illusori da causare incertezza su chi, o cosa, sia il reale, e chi, o cosa, il riflesso.
L’immersione nel mare delle pagine avviene attraverso un graduale approssimarsi, da prospettiva aerea, a un territorio di saline e poi un ponte, un fiume che presto svela Asilah, la città con dodici torri e cinque porte, adagiata sulla striscia di costa a sud di Tangeri, e qui la Storia corre subito veloce e necessaria tra conquiste e riconquiste, passaggi di mano fra le marinerie d’antan, per dire che la meta del viaggio è questa, la città alla quale non si è smesso di ritornare, anche solo, aerei e navi a parte, grazie a Hermes, “dio dei viaggi e del lontano annunzio” come recita il corsivo che chiude il cerchio del capitolo legandosi al corsivo iniziale.
Ed è subito nei ritmi di un irrefrenabile moto dell’anima che, connotato uno spazio e alcuni suoi abitanti, passando attraverso la nominazione efficace dei materiali usati nella sua pratica artistica, scopriamo che il primo sole attorno a cui si celebra l’osanna della memoria viva è Khalil El Ghrib, il pittore asilano che firma l’opera in copertina e però non vende ciò che dipinge e a chi gli domanda: “Se tu non vendi, come può un amico ottenere un tuo quadro?” lui risponde quieto: “Lo chiede”, chiamando in causa, con lapalissiana semplicità, la dinamica del dono, con tutte le sue complesse diversità di senso che lo rendono molto meno semplice di quanto non appaia di primo acchito.
Si scopre, procedendo nella lettura, che il piccolo universo disegnato dalla memoria dell’autore, così coinvolgente per il continuo moto d’affetto che la sostiene, possiede più di un sole, e infatti, senza che il primo debba tramontare, ecco sorgere il successivo, lo scrittore e attivista politico Edmond El Maleh, marocchino ebreo, “ultimo grande testimone e cantore; non semplice coacervo di ricordi né astratta conoscenza del passato ma persistenza di questo come un’impronta dell’anima” scrive Tarquini nel primo dei molti ritratti che gli dedica nel corso di queste sorprendenti cento pagine dove si è costretti a percepire, a un certo punto, come il senso comune della densità, nella fisica della scrittura, sia abilmente aggirato da una perizia narrativa che ha il potere di dire tantissimo in quell’unico “poco” ammesso che è l’essenziale.
Protagonisti, nell’alveo di una città che ospita un originale Festival artistico capace di unire “austera ufficialità” e “accogliente improvvisazione”, (forse Tarquini ci arriva al seguito di sua moglie, Primarosa, artista) gli odori e i sapori, che nel capriccio del vento possono farsi di sale e sabbia, misti ai tanti piatti della cucina locale, o, con l’aria ferma, rendere dominante il sentore di fogna, quasi a ricordare, per suggestioni, la stratificata e mutevole aggregazione delle umane cose.
È anche un luogo di sparizioni, Asilah, e lo registra con dolente puntualità Tarquini, seduto nel “lieu d’écriture” di un caffè azzurro pieno d’incontri, scrivendo a mano in un quaderno rosso con la costola nera nelle cui pagine incertezze alla Pessoa o minuziosi accenni a un Calvino di città inventate trovano posto, assieme ad appunti su chi non c’è più o è malato, o anche su chi, come Marie Cécile Dufour, moglie di Edmond El Maleh, consuma in loco la sua fine, e lì il racconto trasvola empatico sulla “austera” povertà di lei, e su gesti che rendono eccezionale la sua vita, tanto che, se a narrarla fosse la vecchia che appare e scompare come un’inafferrabile anima della città, racconterebbe coi giusti silenzi “con quanto orgoglioso distacco abbia respinto la proposta del re di farla curare a proprie spese”, e a suggello del tutto Tarquini si ferma sull’episodio di quando “Primarosa avrebbe portato una collana berbera appartenuta a Marie Cécile e donatale da Edmond in nome di lei: e quella fu una delle pochissime volte in cui ho visto mia moglie piangere”.
Ma Asilah è anche un luogo che, prima delle ingiuste divisioni esatte dalla storia, accoglie in un clima di pace che è solo naturale conseguenza delle buone volontà umane, le reciproche dolcezze dell’islamico e dell’ebreo insieme, le cui tracce, quando tutto ormai è franato nel peggio, stanno in una cadente sinagoga e nelle lapidi sconnesse dell’abbandonato cimitero ebraico che guarda il mare.
Quello che più sorprende, in questa operazione di avvicinamento nel tempo e nello spazio al tempo e allo spazio di artisti e scrittori, della loro terra, del mondo e dei vari umani che in essa e attorno a essa respirano, è la capacità della lingua di farsi materia viva delle cose che nomina, lingua governata da un entusiasmo così ben dispiegato e sapiente da andare oltre il coinvolgere, e infatti il miracolo che Tarquini rende possibile, in Blu di metilene, è di trasferire in me lettore quel bagaglio di vissuto che, da indiscutibilmente suo, non per consueta identificazione riesce a farsi anche mio al punto da indurmi non solo a conoscere ciò che ignoravo ma, irretito da un meccanismo di invisibili false agnizioni, a credere di aver fortunatamente ricordato quanto di più vivo e luminoso portavo sepolto nella memoria.
E fra cronache e leggende, presenze fantasmatiche e incerte che dicono senza parole l’indicibile, assistiamo a passaggi di figure reali, fra gli altri, Toni Maraini, che ha vissuto a lungo in Marocco, oltre ad aver sposato il grande artista Mohammed Melehi, scomparso a novembre del 2020, a Parigi, vittima del Covid, e Tarquini, dopo aver pronunciato ad alta voce le iscrizioni sulle lapidi del cimitero ebraico perché a quel suono di nomi sconosciuti le loro assenze si facciano più prossime, recita i nomi “degli amici, perché continuino a esprimere il fascino e il potere del loro essere più profondo, in essi racchiuso fin dentro ogni sillaba e lettera e suono”, e li nomina tutti, vivi e morti, raccontando così anche l’inesausta azione del tempo che dà e toglie come sempre, e su questa sorta di polifonica liturgia che non sta in chiusura del libro ma ben ne rappresenta uno dei molti spiriti, interrompiamo il vano tentativo di rendere (solo la citazione dell’intero testo riuscirebbe a farlo) anime e qualità di questa fantasmagorica impronta che una storia fatta di molte storie ha lasciato nell’autore sotto forma di voluttà testimoniale così ben riuscita per cui, chiuso il libro, molto più ricco e pieno di luci proprie e riflesse di quanto non siamo riusciti a ricordare, non ci si rassegna facilmente alla sua fine e non potendo contare su un seguito, perché i pezzi unici non lo ammettono, in attesa di una rilettura meno eccitata che permetta di distinguere con più avvedutezza i rapporti fra i dettagli, possiamo chiedere soccorso alla rete in cerca di immagini, notizie, volti e biografie che, pur non potendo competere con l’originale, almeno, col pretesto di un’oggettività a rispettosa misura del fantasticato, aiutino a rendere meno doloroso e spaesante il distacco.