Daniela Matronola
A proposito di “Aurora”

La favola invisibile

Giorgio Nisini rilegge in chiave attuale la favola della Bella addormentata sospesa tra buio e luce, tra visibilità e invisibilità. Una storia dove il vero conflitto è tra essere visti/e o essere dimenticati/e, o ancor di più relegati su uno sfondo destinato al buio

Torniamo sul senso del romanzo come genere plurivoco e ibridato, dunque a elevata funzione generativo-trasformazionale, prendendo in prestito questa etichetta composta che Noam Chomsky applica in realtà (udite, udite) alla grammatica per illuminarne la duttilità nella coesività. Il romanzo – che periodicamente viene dato per morto o morente – gode in realtà di una sua salute alla lunga innegabilmente inossidabile: lo dimostra il fatto che assume forme e prospettive sempre diverse e nuove, o, quando non del tutto nuove, almeno rinnovate, con felicità di scrittura ogni volta invidiabili, certamente inattese, tanto che, benché sia fatto salvo, in quel caso, per noi che leggiamo, il gusto di riconoscere nel narrato e nei caratteri tracce di qualcosa e di qualcuno che già abbiamo conosciuto (addirittura nell’infanzia, in un solco quindi di per sé indelebile), restiamo ugualmente sorpresi e avviluppati in un intrico di segni che ci sprofondano nel gusto della narrazione tenendoci al riparo da distrazioni esterne – proprio come Aurora (o Rosaspina), puntasi col fuso di un arcolaio e caduta addormentata, è tenuta per cent’anni in pace e al sicuro nel castello, prodigiosamente avvolto intanto in un intrico di rovi. E così anche la suspension of disbelief è tenuta al giusto riparo.

La storia originaria è “La bella addormentata”, e il romanzo che la riscrive e la traduce in chiave contemporanea è Aurora di Giorgio Nisini (HarperCollins, pagine 310, 19€), uscito a gennaio scorso e subito proposto nella rosa dei numerosissimi libri candidati al Premio Strega: candidatura quanto mai appropriata visto che, come da tradizione, dentro il romanzo la strega c’è – non ha i connotati fascinosi benché sinistri di Angelina Jolie, aggiornamento Disney di Maleficent, ma vanta la voce profonda e rauca senza volto e senza corpo di una fata malvagia che rivendica appunto il diritto al maleficio in nome di una ingiusta esclusione, dispersa nella notte dei tempi e nei pozzi di numerose memorie individuali.

Giustamente, in una delle primissime presentazioni in libreria di questo romanzo, Antonio Pascale, cultore di scienza e immaginazione, e uscito da poco con un pamphlet Marsilio su Pascal, ha notato che l’aurora come momento fulmineo del giorno è un istante doppio di luce e buio, e per l’insonne di lotta fra l’abbandonarsi al conforto della luce che sorge e lo sprofondarsi nell’umor nero.

Luce e buio sono, nel romanzo di Nisini, il doppio costante tra cui oscilla la vicenda raccontata: è lo status in cui si dibatte l’eroina eponima relegata sullo sfondo eppure determinante per l’intera storia (dettaglio, questo, da rivalutare) col suo ingovernabile dormiveglia; è, come pure è stato notato, alla radice del conflitto tra razionalismo e superstizione, tra illuminismo ostinato e devozione cieca, tra illuminazione elettrogena e oscurità ambientale, tra benessere ricchezza e serenità da un lato e dall’altro miseria inquietudine e disperazione, fino al livore e a un pazzo delirio di vendetta.

Ma il vero doppio, in questa vicenda di cui sappiamo o crediamo di sapere tutto, se teniamo conto che è dopotutto una riscrittura e una traduzione al tempo presente, al mondo contemporaneo, risiede nella superficie della storia e nel fondo nascosto di essa. Proprio perché conosciamo già l’intreccio, fatte tutte le dovute trasposizioni al presente, rischiamo di cadere nella solita trappola conoscitiva: dare corda a ciò che la storia ci mette davanti, ci agita sotto il naso, mentre sullo sfondo si agita ben altro, cioè, forse la vera storia. È tanto vero, tutto questo, che, caro lettore e cara lettrice, è il caso di consigliare: occhio al finale – che, classicamente, con poche note appuntate su un foglietto sbiadito sul punto di cancellarsi definitivamente, svelerà alcune identità contraffatte e remoti legami, e, come è di ogni storia davvero buona, rovescerà del tutto la versione fin lì creduta in buona fede.

Tra un terrificante trillo notturno marchiato a fuoco nella coscienza remota del padre recente della storia, ripetuto in una misteriosa telefonata notturna, e l’alternanza tra sonno e veglia della figlia, Aurora, appunto, la nostra principessa, si infila un retroscena, una storia di esclusione che è il dato più attuale. Allora la vera ambiguità di questa vicenda non risiede solo nella dualità tra luce e buio con tutte le conseguenze, e tutte le varianti, formali e non solo, che ciò comporta (incertezza tra inerzia e azione per esempio), ma più profondamente sta nel conflitto tra visibilità e invisibilità, tra essere visti/e o essere dimenticati/e, o ancor di più relegati su uno sfondo destinato al buio.

Dunque anche la narcosi ingiustificata di Aurora e la doppia valenza della violenza, che la addormenta prima e la sveglia poi (destandola a una più vigile coscienza proprio attraverso un profumo, quindi attraverso il buon uso del naso, indizio a mio parere brillante che allude all’ampliamento della percezione), ha un’origine remota, persa nella notte (è il caso di dire) dei tempi e nel lungo filo delle generazioni, in un’epoca per la verità non lontanissima, che ha prodotto proprio tutte le opposizioni ed esclusioni che il romanzo si propone di disambiguare.

Leggendo questo aggiornamento della classica storia della bella addormentata (nel bosco) l’altalena tra sonno e veglia di Aurora assume un senso molto più vigile di quanto si creda, ed è significativo che ciò venga, specie alla fine, riconosciuto da chi legge. L’inerzia immotivata e poi il risveglio più in all’erta, coi sensi quieti e moltiplicati, rafforza proprio l’idea che il vero senso dell’intera vicenda sia annidato appunto nelle fasi di sonno della principessa (ora figlia di genitori facoltosi e in vista, ma per i due, e per i familiari, pur sempre “la loro principessa”): una specie di riposo laborioso in cui, a dispetto dell’immobilità e della risposta irrilevabile a qualsivoglia stimolazione, si tende una sensibilità al grado zero orientata verso altro più consonante stimolo pronto a ridestarla per covare un frutto che riannoderà fili rimossi, lasciati cadere e resi inerti, ma, nel buio della zona ignorata di questa storia, pronti a rimettersi in moto, e a chiudere un cerchio, o un circuito, come il versante di luce ed elettrico di questa vicenda ci porta a credere, o meglio a ricostituirlo, e così forse a risarcire. 


La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini

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