Mariano Ragusa
Saggio sulla televisione

Il bar dell’opinione

L'opinione si vende un tanto al chilo in tv grazie alla moltiplicazione degli "opinionisti" in chiave Bar Sport. È il frutto di un percorso che trasforma “qualunque” in “qualcuno”. E (talvolta) viceversa

Immancabile, persino essenziale, l’opinionista è diventata figura strutturale della narrazione televisiva imbastita prevalentemente (ma non solo) dai programmi di infotainment. Grazie a questo ruolo, carriere destinate all’oblio hanno conosciuto balzi insperati di ripresa così come professionalità già ben avviate nel loro più che apprezzabile percorso, hanno acquisito quel plus di notorietà accelerandone posizionamento e mobilità nel mare variabile della comunicazione mediatica.

La categoria degli opinionisti è assai flessibile, estensiva ed inclusiva. Ha confini mobili in ossequio al mantra corrente della “contaminazione” di generi e linguaggi che tuttavia, nel caso in esame, copre con appellativo nobile il grande discount dell’informazione miscelata con lo spettacolo.

La figura dell’opinionista segna il passaggio della chiacchiera da Bar sport sotto l’ombrello tutorio della nobile Costituzione che sancisce il diritto alla libera espressione del pensiero. Il punto è comprendere quale sia la sostanza di quel libero pensiero. Ma qui, si dirà, è materia appunto opinabile e mai soggiacente a regole e filtri predeterminati se non quelli a posteriori scanditi dal gradimento del pubblico e misurati dall’Auditel.

Val la pena, allora, provare a delineare il profilo di questa permanente figura televisiva che nelle sue variegate forme mediatiche gioca sulla linea di confine tra disvelamento e mistificazione dei messaggi. Ovvero tra la sensatezza ragionevole delle opinioni offerte al pubblico ed al contempo a gesti di manipolazione indotte da una grammatica basata sullo scontro, sulla lite come unici e definitivi contenuti dell’opinare in diretta tv.

Il salto dal Bar sport al tavolo di un talk televisivo equivale alla trasformazione del “qualunque” in “qualcuno” seppure per la durata di uno show.  La retorica da Bar sport – densa di genericità, estrema e banale semplificazione, istintivamente populista – trova la ri-codificazione nei discorsi dell’opinionista di turno che ne assume la rappresentanza non delegata, offrendosi come quel “qualcuno” al quale il pubblico è invogliato a riferirsi.

È così che comincia la vita mediatica dell’opinionista, egli stesso un “qualunque” sino a quel momento, galleggiante nel sottobosco di carriere in affanno se non addirittura finite e privo di una qualche specificazione di competenza. L’ordine del discorso fa leva su queste figure, sul lessico che usano per comunicare, sui pensieri che sono in grado di esprimere. La sola frequentazione per poche ore di qualche talk ci convincerebbe di trovarci nel bel mezzo del naufragio della qualità.

Ma, attenzione: rischieremmo letture moralistiche e perciò stesso inefficaci dal punto di vista dell’analisi. Perché c’è un altro aspetto da considerare. Al tavolo dei talk siede non di rado e assai volentieri il giornalista di fama, l’esperto definito dalla propria misurabile competenza, lo scrittore e persino il pensatore dal curriculum ineccepibilmente alto. E non se ne sta in un angolo con la certezza che la sua sarà la parola definitiva e chiarificatrice del dibattere davanti all’occhio della telecamera. E infatti non è la nobile panchina il loro posto ma il campo aperto della disputa in cui schegge minime di pensieri si sciolgono nell’acido (benefico per gli ascolti) della lite, del parossismo, della polemica per la polemica meglio se condita da qualche parola piccante e non sempre allusivi “vaffa”. Non è mai “voce del sen fuggita” ma perfetta adesione alle regole del gioco condivise per variegate opportunità: promuovere il loro ultimo libro o più semplicemente promuovere se stessi, la propria immagine, imprimere traccia di sé nella fluidità della comunicazione intensiva.

Ne deriva una certezza sulla dinamica che muove l’opinionismo in tv. Il passaggio del “qualunque” al “qualcuno” incrocia quello di chi è di suo “qualcuno” alla dimensione del “qualunque”.

Il risultato, che matura nello spettatore come immagine della realtà mediata dalla tv, è la perfetta sovrapponibilità tra i tumulti post separazione di Ilary Blasi e Francesco Totti, con l’intemerata del professore universitario contro i malanni non meno dolorosi del Pd in crisi post-elezioni.

Tutto è miscelabile, tutto è amalgamabile: è la certezza delle narrazioni affidate al mondo degli opinionisti. La complessità della realtà ha come specchio il caos organizzato del racconto.

Gli strepiti e le urla dei talk, il tasso zero di autentiche argomentazioni, rafforzati dalla catena di amplificazioni garantita dai social, agiscono come perfetto dispositivo di neutralizzazione e rassicurazione. Nello schermo presidiato dagli opinionisti si riflette una società dove la non-competenza non è né disvalore né ostacolo ad occupare uno spazio legittimato, ricoprire un ruolo sociale e professionale persino con sfumature di autorevolezza. E, allo stesso modo, simula una società nella quale la competenza certificata, volentieri “scende” nel mondo dei “qualunque” mimando l’apertura democratica della cultura.

È la televisione, baby!

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