Luca Fortis
Viaggio nelle province iraniane

L’acqua di Teheran

Nelle campagne iraniane è scoppiata la protesta dei contadini per la cattiva gestione delle acque. Dighe e canali hanno stravolto un ecosistema millenario. E dal governo cominciano ad arrivare le prime ammissioni...

Le gocce d’acqua riempiono l’aria di freschezza, l’aria che proviene dal Badghir, la torre del vento, antico sistema di aria condizionata persiano, le fa strabordare dalla fontana al centro della stanza e le vaporizza. Le migliaia di piccole gocce si tingono di una moltitudine di colori e riflessi della luce del sole e delle finestre dai vetri colorati. L’acqua dalla fontana principale scorre in un canale che pieno di piccole altre fontanelle, porta l’acqua in un paradisiaco giardino pieno di uccelli, piante e fiori. Un’esplosione di vita dalle mille sfumature. Attraversato questo eden, il canale d’acqua, detto anche qanat, fuoriesce dai muri di cinta della sontuosa dimora e scorre verso le terre coltivate e poi il deserto. Non è un caso se la parola paradiso, ha tra le sue etimologie la parola persiana pairidaeza, che oltre a paradiso, vuol dire anche giardino.

Perché l’acqua e un giardino, in un paese desertico sono un vero miracolo, un paradiso in terra. Ancor di più se l’acqua viene trasportata per decine, se non centinaia di chilometri attraverso canali detti qanat e proviene dalle nevi delle catene montuose. Neve che porterà vita al deserto. Questo piccolo miracolo ha dato vita al fragilissimo eppur millenario ecosistema iraniano.

Ecosistema che negli ultimi decenni è andato fortemente in crisi a seguito di disastrosi progetti di ingegneria idrica che stanno causando una desertificazione del paese e proteste di massa dei contadini che non hanno più acqua per l’agricoltura.

Una delle regioni più colpite è stata il Khuzestan (nella foto), dove a seguito della costruzione di tre dighe sui tre fiumi più importanti della regione, il Kharkheh, il Karoun e il Dez, si è resa difficilmente utilizzabile l’acqua per l’agricoltura. L’aver fatto uscire i fiumi dai propri alvei per creare laghi artificiali, ha infatti messo in contatto l’acqua con le enormi quantità di sale presenti nel suolo, rendendo l’acqua salata e poco adatta all’agricoltura.

L’acqua, in un paese desertico, sotto sanzioni internazionali e dove l’autosufficienza alimentare è scritta nella costituzione, rappresenta una questione di sicurezza nazionale. Molti osservatori interni al paese sostengono che quando il governo si è reso conto che la situazione gli stava sfuggendo di mano e della rabbia dei contadini che protestano, in fasi alterne ormai da anni, ha scelto di reprimere le proteste con meno violenza di come fece con gli studenti universitari o il Movimento Verde nel 2009. Questo perché si rende conto che la situazione è potenzialmente esplosiva e che vi sono chiarissime responsabilità nella mala gestione del patrimonio idrico. Le proteste quindi non possono essere messe sotto il tappeto come tentativi di cambiare il regime e difficilmente il regime stesso può dare torto ai contadini.

Il governo ha quindi alternato la mano pesante e sgombri forzati dei manifestanti, ad ammissioni dell’esistenza del problema. Nel 2021 qualche manifestante è stato ucciso, ma le forze dell’ordine della Repubblica Islamica hanno usato una mano meno pesante rispetto a quella che hanno utilizzato nelle proteste cittadine degli ultimi decenni. Anche perché hanno più paura dei manifestanti nelle campagne, perché molti di loro sono stati per decenni più vicini alle istanze del regime e vederli negli ultimi anni in piazza rende il governo molto nervoso.

Un altro problema è il trasferimento dell’acqua da zone tradizionalmente ricche di risorse idriche come il Khuzestan verso zone desertiche della provincia di Isfahan.

Anche dalle zone con più acqua della provincia di Isfahan vi sono stati forti prelievi idrici a favore di province ancora più desertiche come quella di Yazd. La situazione era talmente grave che nel novembre 2021 i contadini della provincia centrale di Isfahan per protesta si sono accampati, insieme a migliaia di simpatizzanti, nel letto secco del fiume principale di Isfahan, il Zayanderoud (nella foto). Lo scienziato, Kaveh Madani, che per anni si è occupato di queste tematiche, ricorda che se in un primo tempo la televisione pubblica iraniana ha raccontato le proteste e addirittura intervistato i contadini, in un secondo momento la polizia ha sgomberato i manifestanti e bruciato le tende in cui erano accampati.

L’Iran, come moltissimi paesi in via di sviluppo, scrive Madani in molte analisi, dagli anni Settanta in poi si è fatto affascinare da faraonici progetti idraulici e oggi è il terzo paese al mondo, dopo la Cina e il Giappone, per quantità di dighe costruite. Ma per far ciò sono andate perse enormi aree umide con il loro fragile ecosistema e molti villaggi sono stati spostati.  Lo stesso governo, tra le righe, comincia ad ammettere che hanno costruito dighe dove non dovevano e che, dove avrebbero dovuto, non lo hanno fatto.

Madani nelle sue analisi sottolinea anche come la distruzione delle aree umide ha favorito l’aumento delle tempeste di sabbia che sempre più spesso colpiscono i centri cittadini. Anche l’aver prosciugato interi laghi, come per esempio il lago Urmia, sottolinea nei suoi tanti articoli, ha creato molti problemi e l’inizio di una consapevolezza popolare dell’importanza di salvaguardare correttamente le risorse idriche.

In Iran il settore agricolo dà ancora lavoro a vaste masse popolari e la mancanza d’acqua può diventare una vera bomba a orologeria.

Anche il prosciugamento di zone umide al confine con l’Iraq, per favorire l’estrazione di petrolio dai giacimenti, non ha fatto altro che peggiorare il problema. Il fatto che le proteste di massa negli ultimi anni si siano fatte sempre più ravvicinate e che si siano propagate in tutto il paese, coinvolgendo anche simpatizzanti o persone semplicemente arrabbiate contro il regime, rende questa miccia ancora più esplosiva. I temi ambientali sono sicuramente oggi il pericolo maggiore per il regime perché possono creare un collante tra le proteste di chi chiede maggiori diritti civili, quelle salariali dei sindacati e quelle dei lavoratori del settore agricolo. L’Iran deve la sua millenaria storia ai qanat, canali progettati dall’uomo migliaia di anni fa, che hanno portato l’acqua delle nevi dalle montagne ai deserti. Senza queste opere, on ci sarebbero i famosi giardini persiani, giardini che hanno dato origine, insieme ai giardini di Babilonia, al termine paradiso. Così come, senza di essi, non ci sarebbero i campi coltivati e i frutteti, che per millenni, hanno sfamato le popolazioni di questo vasto paese semidesertico. Eppure dagli anni Settanta in poi, l’uomo sembra aver dimenticato che i progetti di ingegneria idrica devono sempre conoscere il territorio in cui incidono e le regole della natura, per funzionare bene. Senza questo invece che un paradiso nel deserto, si rischia di creare un inferno di sabbia.

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