Pier Mario Fasanotti
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Coppie imperfette

Susan Glaspell racconta una storia di (normale) disamore che finisce in giallo. Irvin David Yalom, invece, usa le armi della filosofia per descrivere il male di vivere che divora l'amore

L’uccellino. C’è da fidarsi della catalana Alicia Jimenez-Bartlett, a nostro avviso la migliore giallista d’Europa. La quale addita come capolavoro un breve quanto anomalo poliziesco dell’americana Susan Glaspell. L’ambiente è freddo e desolato, il crimine avviene in una casa situata in una conca, lontano da altre abitazioni. Il luogo stesso è metafora dell’isolamento e della solitudine più cupa. A scoprire un uomo impiccato è un agricoltore, assieme alla moglie seduta su una sedia a dondolo. Sguardo inebetito, sorriso enigmatico. Arrivano non solo gli inquirenti, ma anche due vicine di casa, sia pure a poco d’un miglio di distanza. Entrambe si rammaricano per il fatto che da molto tempo non andavano a far visita a Minnie Foster Whright, moglie del defunto, che viene portata da un’altra parte perché sospettata. Mentre gli investigatori uomini indagano al piano superiore della casetta, due donne sbirciano pressoché tutto al piano inferiore. All’inizio “c’è tutto salvo il movente” che sarà trovato grazie a una minuziosa indagine e che ha come perno un particolare e la suggestione psicologica in cui è avvolto. Le due donne sono autorizzate a portare via coperte, abiti, oggetti di cucina. Non servono più, e gli inquirenti lasciano fare, ostinandosi su altre fantomatiche piste al piano superiore. È l’intuito femminile che vince, e alla grande.

Non a caso, il nervoso giallo ha come titolo Una giuria di sole donne (Sellerio, 85 pagine, comprese introduzione e postfazione, 12 euro). Le due occasionali investigatrici esaminano tutto. Anche una tela fatta con ago e filo, scoprendo che ci sono due parti molto diverse, segno di un mutamento di manualità che contiene un diverso approccio. I loro occhi si fissano su una gabbietta per uccelli, la cui apertura è stata scassinata. Minnie Foster cantava spesso e l’uccellino era diventato suo compagno d’ugola. L’assenza del pennuto le mette in guardia. Che sia stato il marito a eliminare il pennuto? Minnie si sarebbe trovata in un terribile silenzio, accanto a un coniuge perlopiù assente e privo di qualsiasi empatia quando si trovava solo con lei. Un buon uomo, ma tremendamente insensibile. Rimane il dubbio- se gli indizi sono questi- su come abbia fatto la donna a mettere il cappio al marito e impiccarlo. Il romanzo pone in evidenza l’ottusità degli inquirenti maschi, i quali considerano la ricerca delle due donne come “bazzecole”. Sta di fatto che saranno queste bazzecole a spiegare il dramma. Si legge nell’acuta postfazione (di Gianfranca Balestra): “La ricostruzione dei rapporti della casa porta all’identificazione di un triangolo violento fra marito, moglie e uccellino: il marito vieta alla moglie di cantare nel coro, il marito uccide l’uccellino che allieta con il suo canto la solitudine della moglie, la moglie uccide il marito”. Trama orrendamente semplice che sottende a rapporti inesistenti, a un silenzio insopportabile che si fa forte umiliazione e insopportabile isolamento. E ancora: “Il paradigma indiziario, per usare una felice definizione di Carlo Ginzburg, presenta forti analogie con il metodo interpretativo della psicanalisi, imperniato su dati marginali considerati come rivelatori. La scienza della psiche, che si sviluppa parallelamente al genere poliziesco, ha in effetti un ruolo centrale nello svolgimento narrativo e nella logica investigativa”. L’esile romanzo rimanda, tra l’altro a un classico dell’orrore di Edgar Alan Poe, Il gatto nero. Così come, secondo alcuni, potrebbe essere letto in chiave proto-femminista.

Andarsene. I più avveduti e colti lettori conoscono – o ne avranno sentito parlare – lo psichiatra Irvin David Yalom, che è stato anche scrittore di saggi e romanzi di successo ispirati ai filosofi Spinoza, Schopenhauer e Nietzsche. Ora guarda se stesso e la moglie, annodati dal concetto di malattia e morte. Lo fa, magistralmente, con Una questione di morte e di vita (Neri Pozza, pagine. 208, 18 euro). Il testo appare con doppia firma: David e Marilyn. Sono sposati da quasi settant’anni, uniti dal un’intesa profonda e al tempo stesso da interessi comuni; inevitabile e commovente quindi l’intima sinfonia dei sentimenti. La donna, impegnata nel femminismo e autrice di dodici saggi, è affetta da un mieloma plurimo, malattia per la quale non ci sono rimedi radicali. Scoperta la malattia è la donna a proporre al marito la scrittura di un libro a quattro mani. Un capitolo a testa. Ma Marilyn si pone una cupa quanto realistica domanda: e se non riuscissi a portare a termine il mio compito? Si dà un’immediata risposta: sarà Irvin a continuare l’opera. E così avverrà, malgrado le iniziali perplessità del marito. Il nucleo di questo memoir a due s’incentra sulla lucida consapevolezza della morte da parte di Marilyn e sul disorientamento di lui, che considera inconcepibile, in assenza della compagna, il proseguimento dell’esistenza (ha 88 anni, uno in più di lei). Ne hanno da raccontare. Si sono incontrati, e innamorati, a 14 e a 15 anni, si sono sposati, hanno avuto quattro figli e tanti nipoti. Entrambi, poi, sono figli di ebrei immigrati dalla Russia negli anni Venti, titolari di un negozio di alimentari a Washington. Marilyn ha vissuto i primi anni in un ambiente per nulla culturale, per giunta abitante un appartamento piccolo in un quartiere malfamato della città. Il clima di quegli anni, e il triste contorno sociale, influiranno su Irvin, vittima di bullismo solo per essere ebreo (alla faccia dell’America aperta e foriera di sogni e possibilità, come certa storiografia grossolanamente sbandiera). Il giovane si rifugia in ciò che crede più bello e confortante: lo sguardo di Marilyn, lo studio della psicanalisi. Al termine della loro variegata esistenza, fatta di incontri, letture, scritture e viaggi, ora si tengono per mano. L’idea di una guarigione è un venticello instabile. Irvin si tiene per sé quanto scrisse Nietzsche: “Il pensiero del suicidio è una potente consolazione: grazie a esso si superano molte notti buie”. Lo stesso pensiero s’insinua nella mente di Marilyn. Sono in California, dove il suicidio assistito è permesso dalla legislazione. Irvin avverte lo stordimento e lo sbalordimento dinanzi a un progetto così nero. E si chiede: “Non è sufficiente vivere? Non basta passare questi momenti insieme?”. No che non lo è perché la donna chiede di lasciarla andare. Se la decisione è stata presa, non è così facile realizzarla dinanzi alle complicazioni burocratiche. Marilyn, sotto la sedazione della morfina, beve la pozione letale. Lo psichiatra, che tante pagine ha scritto sul lutto, sa bene che lo attende, almeno nei primi mesi dell’assenza del suo amore, il tormento. Nello stesso tempo, considerato il fatto che ha vissuto la vita che voleva, è consapevole che la morsa del tormento si allenterà e certe passate ossessioni perderanno colore e sostanza.

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