Flavio Fusi
Cronache infedeli

Olexandra e Artem

Per capire quali siano gli schieramenti sul campo, si può tornare alla storia di Olexandra e Artem, due giovani ucraini che sognavano una vita libera nel 2004. Chissà oggi dove saranno... ma stare dalla loro parte significa stare dalla parte delle vittime. Sempre

C’era anche chi si sposava in Piazza Maidan, nei giorni arruffati, infreddoliti, sbandierati della rivoluzione arancione. Olexandra e Artem, per esempio. Nell’alba livida e nel fumo dei falò ormai spenti, vennero fuori da una piccola tenda. Diciassette e venti anni: Artem con tozze mani da meccanico, Olexandra con un corto velo bianco rimediato da qualche parte e uno striminzito mazzetto di fiori invernali. Li aspettava una piccola, allegra folla di amici. Prima di lasciarli andare chiedemmo un bacio – perfidi giornalisti! – e loro si baciarono davanti alle telecamere.

Era l’inverno del 2004 e tutto doveva ancora succedere: per l’Ucraina e nella vita di Artem e Olexandra.

Ecco, se dovessi dire da che parte sto e a quale partito sono iscritto in questa dissennata e feroce guerra di sterminio, non avrei dubbi: da allora e per sempre io sono iscritto al partito di Artem e Olexandra. Magari quei due ragazzi non stanno più insieme, magari hanno allevato una nidiata di figli ormai grandi, magari stanno nascosti in qualche lurido sottoscala, magari lei ha trovato rifugio in un villaggio remoto non toccato dalla guerra, magari lui si è arruolato nelle milizie naziste di cui parla Putin, magari invece sono a due passi da noi, nel gregge smisurato di chi si è salvato attraversando la frontiera. Magari sono morti. 

Prendo partito, sì, prendo partito, e sono dalla parte delle vittime contro gli aguzzini. Riconosco nella mia convinzione di oggi tutta la mia storia di uomo: dai tempi remoti in cui manifestavamo contro l’invasione di Praga, e poi contro l’aggressione americana al Vietnam o a fianco del Cile di Allende schiacciato sotto il tallone dei generali traditori. Oggi, nell’immagine di quel bambino ucraino che cammina nel fango e piange disperato senza che nessuno lo consoli ritrovo la foto della bambina vietnamita nuda che urla e singhiozza e che corre sulla stessa strada fangosa: sono gemelli, a mezzo secolo di distanza. E ti invitano – a mezzo secolo di distanza – a prendere parte, a stare dalla loro parte indifesa.    

Ma succede – in questi tempi bui – che seguendo una giusta bandiera, ti volgi indietro e non trovi insieme a te tanti compagni e amici di allora, quelli che manifestavano e che nei cortei scandivano: «Vietcong vince perché spara». Molti di loro si sono accomodati sulla tribuna degli spettatori e da lì teorizzano sulle categorie filosofiche della pace e della guerra. Succede così di trovarsi iscritto d’autorità al Partito unico bellicista, o addirittura di condividere filosoficamente il pensiero unico della guerra. Per dire: nei giorni scorsi un valente amico e collega giornalista è arrivato a deplorare quella che definisce «semplificazione binaria dell’amico/nemico». E dunque ci invita a riflettere bene, ma proprio bene, se Putin sia davvero l’unico nostro nemico o se – per dirla con Brecht – «al momento di marciare non sia proprio il nemico che marcia alla nostra testa».

Confesso di non avere le capacità filosofiche per discettare su questi interrogativi. A distanza di mezzo secolo ammetto che forse – vittime ingenue della semplificazione binaria amico/nemico – tutti noi sbagliammo allora a scendere in piazza. Forse dovevamo indagare più a fondo anche le ragioni di Pinochet che bombardava la Moneda o del generale Westmoreland che innaffiava di napalm le giungle e le risaie del Vietnam.

Ci sono poi gli esperti di guerre e di guerriglie. Per esempio un vecchio inviato come Toni Capuozzo, che in una sbrigativa intervista di alcuni giorni fa pare abbia detto – pare – che quello stretto intorno alle città ucraine era un assedio soft. Leggo poi la testimonianza della troupe dell’Associated Press, gli ultimi giornalisti a lasciare Mariupol assediata, e trovo alcuni particolari di questo assedio soft. Per esempio: questi nostri colleghi dicono che nella città circondata e ridotta alla fame, i cadaveri dei morti vengono seppelliti nei cortili dei condomini. Non succedeva così anche nei 1461 giorni di Sarajevo assediata? E ancora: leggo che a Kharkiv una bomba ha fatto strage di civili in fila per il pane. A Sarajevo – ricordo – quando arrivammo con le telecamere i cadaveri davanti alla porta sfondata del forno erano già stati portati via, ma sulla neve bianca restava l’impronta sanguinosa dei corpi. A proposito di assedio soft.

Infine: sono contro la guerra, ma non sono pacifista. Dicono che questo l’abbia detto un maestro di tutti noi, Gino Strada. Sembra, perché in questa epoca di accapigliamento e di lotta nel fango sui social, ogni citazione va presa con sospetto e verificata allo spasimo. In ogni caso, la sintesi mi piace: sono contro la guerra, ma non sono pacifista. Fuor di metafora e al netto di dispute filosofiche, torno alla sostanza della guerra di oggi e della mia iscrizione al Partito di Artem e Olexandra. Il mio personale partito è un partito transnazionale, e dunque corre verso Est fino alle pianure della grande madre Russia. Sono del partito della Divisione Tamanskaya, quella che nell’agosto del 1991 rifiutò di obbedire agli ordini dei golpisti e a Mosca trasformò il colpo di Stato in una festa del popolo. Da quei giorni nacque tutto questo, che oggi ci sembra orribile, ma che dovrà in qualche modo prima o poi ascoltare la voce di chi vuole e combatte per la pace.

In quei giorni, quando la città finalmente libera aveva fame e si avvicinava il freddo dell’inverno, il Comando inviò qualche guarnigione di reclute a raccogliere le patate nei vasti campi alla periferia della capitale. Era una giornata di vento freddo, i ragazzi in divisa grigia scavavano nel terreno brullo con corte pale e riempivano secchi di metallo. Ci sembrò di buon auspicio che i soldati fossero mandati non a combattere ma a sfamare i cittadini di Mosca.   In una pausa del lavoro, Andrej – un biondo di nemmeno venti anni – si riparò insieme a noi sotto una tettoia e accese una papiroska tra i grossi guanti di lana. Era di Tula e ci raccontò le piccole cose che si raccontano sempre della vita e della famiglia, mentre scaldava le mani al fuoco della sigaretta. Ecco, infine: io sono del partito di Olexandra e di Artem, ma anche del partito di Andrej.

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