Raoul Precht
Periscopio (globale)

Torrenziale Feinmann

Ritratto di José Pablo Feinmann, lo scrittore argentino morto poche settimane fa, che ha esplorato tutti i generi della scrittura e della riflessione. Dalla letteratura di genere all'analisi filosofica. Un autore da riscoprire

Ci sono gli “auctores unius libri” che scrivono con infinite variazioni sempre lo stesso libro (e a volte sono, in questo, geniali) e coloro che invece amano variare, sorprendere il lettore con storie che rientrano in generi letterari sempre diversi, visitati e spesso rielaborati con perfido divertimento. Per questi scrittori ogni libro è una sfida nuova e necessaria, ogni storia raccontata pretende una struttura e un andamento narrativo differenti, un percorso per il quale l’autore stesso non è mai transitato.

A questa seconda categoria apparteneva il filosofo e scrittore argentino José Pablo Feinmann, che ci ha lasciato il 17 dicembre scorso all’età di settantotto anni e di cui in Italia, malgrado numerose traduzioni, si è parlato finora troppo poco. Troppo poco per la rilevanza della sua traiettoria culturale – da giovane peronista di sinistra a strenuo oppositore (peronista ormai scomodo) delle politiche neoliberali dell’èra Menem e disilluso cronista dell’attualità, passando attraverso il silenzio obbligato degli anni della dittatura – e per la quantità e qualità dei suoi interventi, spesso puntigliosi e polemici, disseminati in romanzi, saggi, articoli, lezioni universitarie e persino programmi televisivi, in cui ha cercato di rendere il pensiero filosofico più accessibile al grande pubblico. Feinmann è stato insomma un intellettuale a tutto tondo, e se delle sue posizioni si è spesso discusso, anche con virulenza, la loro attualità e pregnanza non sono mai state in discussione.

Era uno di quegli scrittori torrenziali che, come ha detto in un elogio funebre Patricio Zunini, aveva bisogno di 35.000 caratteri solo per schiarirsi la gola. Oltre all’opera saggistica e politica, che percorre tutta la recente storia argentina, ci ha così lasciato una decina di romanzi che cercheremo ora di analizzare brevemente e che sono uniti, malgrado le differenze di cui si diceva, da un minimo comun denominatore, che è l’urgenza e la necessità. Possono essere più o meno riusciti, più o meno ben congegnati, ma non ce n’è uno, in altri termini, che sia superfluo.

Esordisce nel 1979 con Últimos días de la víctima (Gli ultimi giorni della vittima, Feltrinelli, 1993), un giallo decisamente sui generis,il cui titolo è diventato in Argentina una frase fatta per indicare i momenti cruciali dell’esistenza. Qui Feinmann parte da una situazione altamente convenzionale nel giallo classico, e più ancora nella sua variante hard boiled americana, quella cioè di un sicario, Mendizábal, che viene ingaggiato per eliminare qualcuno che sa troppo di qualcosa. Naturalmente il protagonista ignora chi sia davvero questo qualcuno (ne conosce solo il cognome: Külpe), né quale sia la materia su cui è troppo informato, circostanze queste che porteranno a uno scioglimento per lui fatale, se non del tutto imprevedibile. Sebbene non esplicitata, dalla dialettica fra i due cognomi (Mendizábal ha un’assonanza con mentira, menzogna, Külpe con culpa, colpa) si ricava un’allusione all’opacità e alle atrocità del cosiddetto Proceso de Reorganización Nacional (in Argentina semplicemente Proceso), ovvero il periodo della dittatura militare, fra il marzo del 1976 e il dicembre del 1983. La cornice gialla, come in tutti i polizieschi che si rispettino, offre a Feinmann l’opportunità di mostrare (e implicitamente denunciare) la violenza di un potere politico che, così come Mendizábal accetta di eliminare qualcuno senza sapere perché, stava sterminando migliaia di “sovversivi”, considerati colpevoli a priori di qualcosa. Non cittadini, non persone, ma semplicemente “sovversivi” – come avrebbe detto in seguito uno dei militari per difendersi dalle accuse –, ai quali dunque sarebbe stata previamente tolta, come ai prigionieri dei campi di concentramenti nazisti, qualunque dignità umana. Alle spalle di questo romanzo d’esordio, rivelandosi forse un po’ ingombrante, si trova paradossalmente una figura che Feinmann, per ragioni politiche e di stile, non amava particolarmente: quel Borges il cui racconto La muerte y la brújula, con la sua sovrapposizione fra inseguitore e inseguito, carnefice e vittima, sembra una specie di palinsesto o modello per il romanzo. Certo, rispetto alle altezze della metafisica borgesiana, Feinmann si muove qui nella putrida e terragna realtà della dittatura argentina, implicitamente equiparata all’organizzazione criminale che ingaggia Mendizábal e lo manda allo sbaraglio.

Due anni dopo esce Ni el tiro del final (Amaro, ma non troppo, Giunti 1999), libro che coniuga la frivolezza con la profondità, non senza qualche concessione al gusto popolare e ad atmosfere retrò. La storia d’amore fra un pianista e una cantante, con l’immancabile inserimento del terzo incomodo, ricco e misterioso, e sullo sfondo i frequentatori dei locali malfamati di Buenos Aires, è un testo divertente ed erotico, e soprattutto più profondo e dolente, con la sua filosofia apparentemente spicciola, di quanto possa sembrare a prima vista.

Nel 1986 è la volta de El ejército de ceniza (L’esercito di cenere, Giunti 1995, poi Sur 2014), spesso considerato il suo capolavoro, romanzo storico dotato di metafore perfette e profonde, che come tale sarebbe piaciuto (e magari, azzardo, è davvero piaciuto) al nostro Consolo. Ambientato nell’Argentina del 1828, in un paese ancora sotto choc per la cattura e la successiva fucilazione, su ordine del vittorioso generale Lavalle, di Manuel Dorrego Salas, uno degli eroi della guerra d’indipendenza dalla Spagna, il romanzo rappresenta una specie di replica, su scala simbolica e ridotta, dell’inconcludente storia del paese, dalla morte di Dorrego, appunto, alla tirannia di Rosas, che di Dorrego si fa vendicatore. Dopo aver ucciso in duello un aristocratico, il tenente Quesada è allontanato da Buenos Aires e relegato in un fortino sperduto nel deserto, dal simbolico nome di Forte Indipendenza, dove il colonnello Andrade, un altro eroe delle guerre d’indipendenza, ma caduto anch’egli in disgrazia, lo sta aspettando in una minacciosa e malsana quiete. Improvvisamente la vita sonnolenta del fortino è turbata dall’ordine di inseguire un’orda di barbari che mette a ferro e fuoco i villaggi della pampa. Uno di questi, in particolare, verrà distrutto e tutti i suoi abitanti trucidati, ad eccezione di una bambina, che è però ammutolita per lo choc subito. Andrade decide di vendicare la popolazione, e questa decisione – a fronte dell’inafferrabilità dei barbari, vero nemico invisibile – diventa una sorta di ossessione, che lo porta infine a diffidare di tutti, compresi i “rastreadores”, i cercatori di piste in febbrile concorrenza tra loro, che hanno il compito di “indovinare sulla sabbia perfino le orme cancellate dai venti”. Fino al momento in cui, giustiziato uno di questi, Baigorria, che ha fallito, la guerra diventa qualcosa di fine a se stesso, consegnando il colonnello prima alla follia militaristica e poi all’oblio. Tutt’altro che buzzatiano – qualunque confronto in questo senso con Il deserto dei Tartari è improponibile –, il romanzo sottolinea semmai l’infamia della violenza esercitata sulla popolazione civile, con un’evidente allusione alla dittatura della giunta militare, disgregatasi appena tre anni prima. Non è difficile, in effetti, vedere dietro l’orgia distruttiva di Andrade, che nello sfuggente nemico proietta se stesso e le proprie abiezioni, la retorica dei generali che intendevano riconquistare, quale che ne fosse il prezzo in termini di vite umane, le Malvine. Al contempo, Feinmann discute e disarticola qui implicitamente la dicotomia città/campagna e civiltà/barbarie introdotta nella letteratura politica argentina con il Facundo di Domingo Sarmiento, il testo capostipite di un liberalismo che nel paese è stato interpretato in modo selvaggio e spesso tragico. Ma non sono certo queste le uniche chiavi di lettura del romanzo che, come scrive lo stesso Feinmann in una nota dell’autore, rimanda semmai a Moby Dick e alla ricerca di un nemico che dia senso al mondo e alla vita. Il nemico, tuttavia, siamo noi stessi, e non è un caso che le piste del cercatore Baigorria riportino sempre al nulla della vita di Andrade. Il nemico esterno, insomma, è scomparso da tempo, e quello vero si nasconde proprio all’interno di quell’esercito di cenere che lo cerca disperatamente.

La astucia de la razón, del 1990, ed El mandato, del 2000, sono gli unici suoi libri che non mi risultano pubblicati in Italia. La lacuna andrebbe colmata. Nel primo di essi introduce il proprio alter ego, Pablo Epstein, personaggio di rara profondità e compattezza, che poi tornerà in libri successivi, mentre nel secondo analizza, attraverso un classico conflitto padre-figlio, il tema dell’impotenza, facendo dei fallimenti del protagonista Leandro una metafora dell’impotenza dell’Argentina, terra sterile sempre alla ricerca della propria identità nazionale.

Escono nel 1992 El cadáver imposible (Il cadavere impossibile) e nel 1994 Los crímenes de Van Gogh (Cinebrivido), entrambi pubblicati da Marcos y Marcos (rispettivamente nel 2004 e 2010), che testimoniano della verve parodistica e iconoclasta di Feinmann. Nel primo, lo scrittore crea un’atmosfera horror incastonata nella lettera indirizzata da uno scrittore ignoto a una casa editrice, con cui propone la pubblicazione, in un’antologia di racconti, di una storia che finisce per essere anche una parodia del genere. Seguendo le peripezie della piccola Ana in un riformatorio femminile, assistiamo alla trasformazione della protagonista da vittima in carnefice in un mondo di soprusi e violenze. In omaggio a una prassi di autocitazione di cui Feinmann si avvarrà anche in altre occasioni, nel libro compaiono alcune allusioni ai personaggi dell’Esercito di cenere (non a caso, per esempio, il riformatorio è intitolato al colonnello Andrade). Ma quel che più conta è il livello metanarrativo, teorico, che serpeggia nelle riflessioni dell’autore e nelle note a piè di pagina e che ci danno un’immagine della sua idea di letteratura come menzogna, come atto di seduzione e inganno del lettore, non lontana da quella di Nabokov. Nel secondo testo, un thriller satirico, Feinmann affronta e descrive il cosiddetto “menemismo”, ovvero il capitalismo rampante e corrotto degli anni di Menem, sottolineando come anche il nuovo regime trovi le sue radici culturali negli anni della dittatura militare. Qui il protagonista è un cameriere-cinefilo, aspirante sceneggiatore, che per poter mettere su carta i propri crimini finisce per convertirsi in uno spietato killer.

Nel 2003 pubblica La crítica de las armas (Il giorno della madre, Baldini Castoldi Dalai, 2005). Feinmann rimette qui in scena il personaggio di Pablo Epstein, filosofo mancato che cerca in tutti i modi di non farsi notare dai militari, in un romanzo classico che lascia trasparire una gran quantità di dettagli autobiografici e che si sviluppa su almeno due piani: la resa dei conti con una madre neghittosa e indifferente che è fin troppo facile identificare con la patria, e il tema della paura, che intride di sé ogni attimo della vita non solo di Epstein, ma dell’intera nazione. Una nazione fantasma, in cui chiunque può scomparire senza preavviso, prelevato, in pieno giorno o preferibilmente con il favore della notte, da un potere politico-militare che ha ormai perso qualunque remora.

Due anni più tardi sarà la volta di un libro che è un po’ anche la summa del suo pensiero filosofico, ovvero La sombra de Heidegger (L’ombra di Heidegger, Neri Pozza, 2007). In quest’opera, a metà tra romanzo e saggio, Feinmann affronta il problema dei problemi, la prossimità dell’intellettuale (si chiami Heidegger, Jünger o Céline) al Male totalitario, l’ambiguità della grandezza teoretica, la cecità dei chiaroveggenti, l’ingenuità – tale da sconfinare nell’analfabetismo politico – dei Maestri, di coloro che per la loro superiore intelligenza e cultura dovrebbero indicare al resto del genere umano la strada da percorrere. Com’è potuto accadere, si chiede Feinmann, che il massimo filosofo del Novecento, il precursore di Sartre, scimmiottato e scopiazzato da gran parte dei filosofi successivi, abbia potuto aderire al nazionalsocialismo e restare un nazista convinto, anche se non militante, per tutta la vita? La storia è semplice, e prende le mosse da un dato storico incontrovertibile, l’adesione di Heidegger al Partito e il suo allineamento alle politiche culturali nazionalsocialiste per almeno un anno, dal maggio 1933 all’aprile 1934, il breve periodo in cui sarà rettore all’Università di Friburgo. Quando Heidegger si dimetterà, non lo farà in opposizione al regime, ma perché considerato da questo stesso ormai inutile e poco funzionale ai nuovi orientamenti razzisti e antisemiti e messo dunque in disparte. Quale massimo ideologo del regime, a Heidegger succede l’esecrato e impresentabile Rosenberg. Tutta la prima parte del libro di Feinmann consiste nella lettera scritta al figlio da un discepolo di Heidegger, Dieter Müller, che dopo aver flirtato con il nazismo ai suoi inizi ripara in Argentina, rimanendo tuttavia convinto, anche per via del sostegno datole dal suo maestro Heidegger, dell’ideologia nella quale si è formato. Pur non essendo antisemita e non accettando le idee razziste del regime, Dieter crede nella dottrina del Maestro, da cui deriva l’idea di una Germania nazista diretta discendente della filosofia greca, Germania cui pertanto va riconosciuto il ruolo di guida dell’Europa e del mondo, da contrapporre tanto al consumismo americano quanto al comunismo sovietico. Quando, qualche anno dopo la fine della guerra, alcuni nazisti rifugiatisi in Argentina lo contatteranno per coinvolgerlo nelle loro azioni politiche, che dovrebbero portare all’edificazione proprio in America latina del Quarto Reich – e qui è patente l’allusione alla dittatura militare argentina –, Dieter si suiciderà, essendosi finalmente reso conto della follia cui ha votato la propria esistenza di uomo e studioso. Nella seconda parte, sarà suo figlio, non a caso chiamato Martin, a rendere visita a Heidegger nella baita dove questi si è ormai autoisolato e a cercare di metterlo dinanzi alle sue responsabilità intellettuali.

Con un colpo da maestro Feinmann fa comparire alla fine del romanzo, in qualità di allievi e discepoli del secondo narratore, Martin Müller, due personaggi tratti di peso dal libro precedente, ovvero Pablo Epstein e Hugo Hernández, chiudendo così un discorso sull’impegno politico e sulla disillusione che sottotraccia percorre entrambi i romanzi. Così come li percorre una riflessione militante sulla deriva della filosofia e sulla possibilità stessa di insegnarla in America Latina, cosa su cui Feinmann finirà per nutrire molti dubbi, soprattutto per quanto riguarda un paese come l’Argentina che rispetto al resto del continente si è sentito sempre superiore perché più europeo e dunque più civile, ma che è stato poi colpito in modo ancora più duro dal pugno di ferro delle dittature che vi si sono succedute. “I professori migliori lasciarono il paese,” aveva scritto ne La crítica de las armas. “Le università statunitensi (il cui governo, naturalmente, aveva propiziato il golpe [si allude qui al golpe di Onganía nel 1966], come avrebbe fatto con quello del generale Videla) li accolsero molto bene, offrendo loro buone cattedre, ottimi stipendi, assistenza sanitaria, rispetto accademico, stabilità e i professori, quelli che erano i migliori, non tornarono mai più.” Ma alcune parti apparentemente secondarie rispetto al plot principale del romanzo sono altrettanto illuminanti: si veda a mo’ d’esempio le pagine in cui si paragonano le case di riposo per anziani ai campi di concentramento (poiché da entrambi non si esce vivi, e vi si entra solo per morire), o quelle sulla differenza fra scrivere e pubblicare e sulla presunta superiorità di chi scrive ma non pubblica, o ancora il fastidio per la figura dell’esule di successo, colui che non solo si è salvato dalla dittatura ma è riuscito a commercializzare la propria immagine diventandone un beneficiario.

Ecco dunque che questi due ultimi romanzi possono essere interpretati come veicoli di un’estrema resa dei conti. Con le altezze di un pensiero filosofico che non s’incarna più nella realtà degli uomini, da un lato, e dall’altro nei confronti di una patria sempre più impaurita e impoverita, man mano che la Storia la fa sprofondare in una nevrosi allucinata, senza via di scampo.

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