Beppe Navello
In margine alla prima del Regio di Torino

Teatro all’opera

Il teatro, negli ultimi decenni, ha perso una sua certa "sacralità" in nome di una pretesa svolta popolare. Ma è stato proprio così? Al contrario, l'Opera ha mantenuto quei formalismi che però le garantiscono un'identità e una funzione universalmente riconosciuta

La sera del 12 febbraio scorso a Torino, andando all’inaugurazione della stagione del Regio, mi sono confrontato con una riflessione che mi si affaccia alla mente quasi tutte le volte che vado all’opera: un pensiero che non riguardava il bell’allestimento al quale ho assistito (Bohème di Puccini, direttore d’orchestra Piergiorgio Morandi, registi Paolo Gavazzeni e Piero Maranghi); e che testimonia una svolta di immagine e di idee rispetto alle difficili vicende degli ultimi anni di quella fondazione lirico sinfonica. No, si trattava di qualcosa di più generale rispetto all’idea del teatro che si è formata in questo nostro paese e nello stesso tempo di qualcosa di più personale visto che da più di quarant’anni lavoro in palcoscenico (e quindi anche un pochino per il palcoscenico).

Il pensiero mi ha assalito subito, arrivando nella Galleria delle Carrozze, dove un pubblico elegante, eccitato e composto attendeva in fila pazientemente per poter varcare le numerose porte d’ingresso dopo aver presentato i green pass di prammatica: e dove alcuni carabinieri in alta uniforme erano immobilizzati, sull’attenti, nel saluto militare agli spettatori. Dentro la bella sala di Mollino bianca e rossa, erano molti gli smoking e gli abiti da sera e tutti erano contenti di dovere questo rispettoso atteggiamento nei confronti del Teatro. Insomma, mi è stato inevitabile confrontare quest’atmosfera che nessuno ha mai messo in discussione con quella del teatro dove sono abituato a lavorare: quello scritto con la “t” minuscola, che è quello di prosa. Nessuna invidia, nessun rancore, per carità, anzi ammirazione sconfinata per l’unica forma di spettacolo dal vivo che è riuscita in questo paese a restare al centro della vita sociale, a mietere consenso e a suscitare orgoglio territoriale e patriottico. L’altro teatro no, si è chiuso in sé stesso, si è mortificato negli anni della contestazione esigendo abiti conventuali, polemizzando contro le pellicce, i gioielli, le cravatte. Aiutatemi a ricordare se qualcuno dei nostri teatri di prosa ha mai avuto carabinieri in alta uniforme all’inaugurazione della stagione; o il Presidente della Repubblica ogni anno, nel palco reale; o la cravatta nera in sala. A me non viene in mente niente del genere nemmeno all’inaugurazione delle più importanti stagioni di prosa italiane, quelle dirette da Strehler o da Ronconi al Piccolo di Milano; o a quelle del teatro pubblico della capitale, all’Argentina o nei teatri storici come il Quirino o l’Eliseo dove pure qualche Presidente della Repubblica ogni tanto ci si affaccia, ma in privato e senza smoking, quasi in sordina…

Mi ricordo bene invece la stizza che manifestava il mio Maestro Mario Missiroli (che negli anni Ottanta del secolo scorso dirigeva il Teatro Stabile di Torino, già allora uno dei più importanti d’Italia) quando per l’inaugurazione della stagione del Regio si bloccava il traffico di Piazza Castello; mentre per la stagione dello Stabile al Carignano non si chiudeva nemmeno il posteggio a pagamento che a quel tempo occupava la piazza omonima davanti al teatro; e ricordo soprattutto le riflessioni che ne seguivano, sul vero teatro nazionale italiano che era il melodramma, popolare anzi nazionalpopolare, e sull’involuzione che dal dopoguerra ad oggi ha sviluppato il palcoscenico della prosa, distanziandosi nella torre d’avorio di una lingua letteraria non più praticata o inabissandosi nell’ermetismo dell’innovazione formale. A questo teatro in Italia, i fondi pubblici hanno da decenni negato il diritto ai grandi palcoscenici, alle scenografie costruite, ai costumi preziosi e creati ad hoc, all’illuminotecnica innovativa: sono soltanto più due i teatri stabili che sono riusciti a mantenere il laboratorio scenografico e la sartoria, con tecnici dipendenti. Tutti gli altri appaltano ad aziende private. I teatri d’opera no: orgogliosi delle loro scenografie monumentali, esibiscono nelle vetrine dei foyer i costumi disegnati da grandi artisti, consapevoli che nel paese di Buontalenti e di Leonardo, di Michelangelo e di Baldassarre Peruzzi inventori nel Rinascimento della scenografia moderna, non si deve dismettere quel patrimonio di memorie.

Dunque, viva la lirica e le sue sublimi arie amate da tutti gli abitanti del Bel Paese! Lancio dalle colonne di Succedeoggi un appello ai miei colleghi che ancora dirigono teatri e stagioni di prosa: per riguadagnare prestigio e credibilità, lasciamo nell’armadio di casa i maglioni girocollo, ricominciamo dalla cravatta alle prime obbligando il pubblico al nodo Windsor detto anche Scappino prima di entrare in sala e controllando l’operazione, se non con i carabinieri già impegnati all’Opera, almeno con gli alpini o con i paracadutisti.

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