Marco Vitale
“Breviario delle rovine” di Pasquale di Palmo

Orizzonti in solitario

Il senso della perdita, della memoria, dei luoghi, degli affetti, del linguaggio, della dignità delle persone. Sempre più la poetica dell’autore veneziano si calibra su questo tema fino a farsi “poesia civile”

Con il suggestivo titolo Breviario delle rovine (Medusa, Milano 2021, 169 pagine, 19,50 euro) Pasquale Di Palmo presenta, a soli tre anni dall’ultima sua raccolta, un personale itinerario poetico che si snoda a partire dal primo libro pubblicato (Horror lucis, Edizioni dell’Erba 1997) per giungere alla produzione attuale, parzialmente compresa nella bella plaquette edita da L’Obliquo (Vertebrae, Brescia 2020) preziosa dei disegni di Giorgio Bertelli. Una ricapitolazione antologica, dunque, attraverso un vaglio di testi che tuttavia – e mi rifaccio all’intuizione critica di Rodolfo Zucco nel denso saggio in postfazione al volume – viene a costituire una proposta “unitaria” più che una restituzione “oggettiva” del lavoro, un libro insomma “nuovo” con un suo forte profilo tematico, un suo fil rouge variamente e metaforicamente declinato. E ne è conferma proprio la selezione dei testi “montati” nel Breviario e riferiti a un paesaggio di rovine che da archeologico-metaforico si fa francamente storico, memoriale e si orienta verso un presente su cui l’autore ha avuto e ha ancora molto da dire. Commisurata a questo itinerario è così la scelta dei testi offerti, il cui peso cresce in ragione delle raccolte della maturità riproposte quasi per intero (Trittico del distacco, 2015; La carità 2018, entrambe uscite da Passigli). 

Proviamo dunque a seguire Di Palmo che da viaggiatore – verrebbe da dire da Wanderer – assorto tra i tufi degli etruschi a Sovana, e con una già messa a punto attrezzatura metrica e retorica (da rileggere i bei sonetti ora ripubblicati) giunge, possiamo dire, presto (fin dalla seconda raccolta, Ritorno a Sovana, L’Obliquo 2003) agli orizzonti «tarlati dalle incastellazioni e dalle torri infernali dell’“industria”» (Zanzotto) la cui resa costituisce uno dei tratti salienti della sua poesia. Duplice è infatti la città in cui egli si muove: quanto resta di Venezia, se così si può dire, contro la gigantesca conurbazione sorta sulla terraferma; la Maternità di Giovanni Bellini in San Francesco della Vigna e le torri telemetriche, epitome di un anacronismo militare che aggiunge rovina a rovina. Tra queste due città un mobile, delicato equilibrio di canali e di barene sta quasi come una via di fuga, luogo segreto e tenace che permette di comprendere e “salvare”, spesso a motivo unicamente della parola, quanto è ancora possibile. 

Tale itinerario, che dai ricordati ipogei etruschi approda alle cicatrici della civiltà industriale su un paesaggio di antica e perduta bellezza (ed è sempre la lezione di Zanzotto), ha comportato significative messe a punto stilistiche da parte del poeta. La sua iniziale misura endecasillabica, i suoi echi sabiani («Magro come il cipresso che nel vento / tendeva a grandi nuvole la cima / andavo lungo un viottolo d’argento / sillabando tranquillo qualche rima», p. 15), complice anche una approfondita frequentazione della poesia surrealista (Di Palmo ne è sperimentato traduttore) si sono venuti complicando e modificando in direzione di una pronuncia più scheggiata che non di rado ha trovato giustezza nella prosa. E forse lo snodo in questo senso sta nelle risentite marine invernali di Punta Sabbioni, in incipit a Marine e altri sortilegi (Il Ponte del sale, 2006) con quell’idea di «essere qualcosa di inanimato, / sasso nuvola bottiglia / che qualcuno ha lasciato sulla battigia» (p. 45). Un tema questo che ritroveremo in un bellissimo inedito quasi in chiusura di BreviarioLa barena vista dalla polveriera («non essere che spina / nella mutilazione del paesaggio», p. 142). 

Sulla copertina di Breviario Di Palmo ha voluto la riproduzione di una foto di Willy Ronis, Fondamente Nuove, Venezia, 1959, un’immagine che ispira uno dei suoi testi più belli e, quanto all’idea di paesaggio, sta a significare un prima, perduto, cui si contrappone la cospicua e certo non conclusa ricognizione sul presente. Dunque, uno sguardo di sorvegliata elegia, prima di rivolgersi alla terraferma degli ultimi, degli esclusi, degli offesi dalla malattia. L’intero Trittico del distacco (ma in un primo tempo avrebbe dovuto intitolarsi Trittico degli addii) è dedicato alla perdita del padre colpito da un male che ne invalida la memoria, in uno smarrimento di identità che porta il poeta a ricorrere al familiare dialetto veneziano, come ultimo stratagemma possibile nel campo del silenzio («vorìa dirte / ne la to lingua / ne la lingua che ti parlavi ti / fin da putèlo, / vardandote fisso nei oci […]», p. 89).

Sempre più la poesia di Di Palmo viene allora a calibrarsi sul tema della perdita, che è perdita non solo della memoria, ma dei luoghi, degli affetti, del linguaggio, della dignità delle persone (“La signora Nonsocomesichiama”… p. 104) intanto che la frequenza non episodica di vite ai margini viene a trovare riscontro in prose divenute ormai racconti compiuti e di studiata essenzialità. E la pietas del poeta – spesso da sé ritratto en promeneur solitaire nell’atto di dar riscontro alle dimensioni del suo orizzonte ferito – dà luce a questa materia che nel suo scarno dettato, essendo profondamente lirica, si offre come credibile poesia civile.

Willy Ronis, Fondamente Nuove, 1959

Sarà ancora viva quella bambina
che, qualche mese dopo la mia nascita,
si avventurava sulla passerella
in legno, in bilico tra le brìcole

con l’eleganza innata di una silfide
che ignorava quel mondo ancora benedetto
impastato di miseria e bellezza
dove uno spettro rema alla salvezza

e gli abitanti si godono l’aria della sera
contemplando un panorama di mura e masegni
contro il vuoto lagunare? Ritagliato,
su fondo di cartone, il Casino degli Spiriti.

Pasquale Di Palmo

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