Giuliano Compagno
In memoria di una grande donna (e attrice)

Per Monica Vitti

Monica Vitti è ancora sul palcoscenico di generazioni di spettatori, che la si ritrovi a teatro, su un set, in un varietà televisivo, durante un dibattito o un documentario. È fonte di emozioni, è nello specchio del Femminile

Finalmente alle spalle quelle commemorazioni che, minimo da un decennio, stavano in un cassetto. Si sa, dinanzi a una celebrità che cede il proprio soffio, vi è il giornalista di mestiere che assume una posa contrita e si porta avanti col dolore dei lettori. Il nulla che egli esprime è pari a un sentimento a cui fa il verso il piagnisteo anaffettivo dei “critici” che, negli anni Sessanta e Settanta, non esistevano in Terra. Eppure non ce la fanno a tacere, ad ascoltare, a imparare.

L’eco di tutto questo è già svanita. Come Libération ha subito intitolato, Monica Vitti si era già levata alla sua altezza  senza tempo, come un’Etoile dans la nuit. Così durevole era stata la sua scomparsa, vent’anni lungo i quali la figura smagliante che aveva incarnato era a poco a poco mutata in vapore, sino a volarsene. Perché l’Arte non pesa nemmeno un grammo e ritorna sempre a se stessa. Perché la melanconia del suo smarrirsi era quel che Italo Calvino definiva una “tristezza divenuta leggera”. E con immensa classe, prima di andarsene davvero, si è resa irreperibile.

Non riesco ora a immaginare un commiato più fiero, pari soltanto a quella presenza apparente che le varrà il rispetto della società migliore. Che nessuno spettegoli su Monica Vitti; lo verrebbe a sapere, ne soffrirebbe…

Arrivi a un’età in cui di alternative all’essere non ne scorgi più. Non è il caso di accendere lumini in una società spenta, né di esercitare le minime vanità della storia personale. Di notte ci sono stelle potenti da oscurarti con il loro più piccolo barlume ma anche amorevoli da addormentarti, se solo le sapessi contemplare per un istante. Qui non occorrono critici o coloristi, qui servono storici del cinema oppure una sentenza inappellata (la emette Giancarlo Giannini) secondo cui è stata la più grande attrice del mondo. Senza attardarsi in dedali compiaciuti e liste di somigliante valore. Monica Vitti è ancora sul palcoscenico di generazioni di spettatori, che la si ritrovi a teatro, su un set, in un varietà televisivo, durante un dibattito o un documentario. È fonte di emozioni, è nello specchio del Femminile come l’angelo di Chesterton, che è svanito ed è qui, ma anche come l’umano di Hemingway, spezzato dal mondo e fortissimo “proprio nei suoi punti spezzati”.

Parlo di colei che è stata Artista e Musa con la medesima potenza, e perciò indiscernibile. Infatti i suoi silenzi contenevano una tale forza da tacere quelli di Michelangelo Antonioni. Del suo cinema, con tutto il paesaggio di sentimenti che gli andava mostrando, Monica fu soggetto, sceneggiatura, interpretazione e titoli di coda. Tanto era stata impossibile che il Maestro, incontrandola un giorno, avrà persino timore a salutarla.

«Io non rappresento niente. Ma proprio niente. Perché… perché sono la Rappresentazione!» Anche per questo, al principio della sua “carriera”, la Vitti confessa un certo disagio nei confronti delle isterie del pubblico (che ride o piange nelle circostanze meno adatte), il che avviene a Cannes alla Prima de L’avventura. L’indomani le renderanno giustizia le firme di decine di artisti (tra gli altri, Rossellini, Namur, Bazin, Labarthe, Saborit, Sadoul…) che si scuseranno per quella comunità così inadatta di spettatori da gala, “coscienti dell’eccezionale importanza del film di Michelangelo Antonioni”.

Assomiglia a una fesseria la vulgata secondo cui l’attrice tradirà felicemente il periodo delle opere incomunicabili per abbracciare la commedia all’italiana. Benché appaiano abbastanza eccezionali quei casi di transito (come lei, in buona parte, Vittorio Gassman) e più frequenti gli approdi  in direzione contraria, dal comico al drammatico, nel destino di Monica Vitti la separazione tra le due esperienze professionali non avverrà mai, perché mai sconfesserà se stessa, mai rinunciando né alla privata dote della solitudine né alla vocazione di incarnare quella nostalgia di nessun-dove che avrebbe mirabilmente intitolato un bel saggio di Eduardo Lourenço: O labirinto da saudade. In quel labirinto Monica ha scelto di abbandonarsi, quasi avvertendo in che misura, purtroppo, l’Arte risultasse incapace a trovarle una via d’uscita.

Quando ci si ferma e tutto ha termine. Ci è voluta una nobile dignità per rendere le armi a se stessa. E per far vincere la parte apparentemente negativa che le impediva di non vedere. In un breve dialogo televisivo ella ha evocato i fatti della vita che l’avevano seguita passo passo finché, vòlto il suo sguardo indietro, s’era accorta che essi non c’erano più. E allora cosa c’entrerebbe la commedia se non per la sua irruzione sconvolgente in un sistema di tempi e di luoghi comici che Monica trasgredisce di continuo, mescolando le emozioni in un susseguirsi di gesti e di atti magistrali. La verità è che la Vitti ha scombinato ogni regola di un sistema, molto scolastico, ove i ruoli, i moralismi e le finzioni servivano a diluire la cultura e lo spettacolo italiani in un brodo dal gusto assai consolante. Monica sarà il punctum estraneo di ogni fotogramma, per questo risulterà impossibile riderne senza commuoversi.

Ora, se ciò è parte della dissimulata complessità di una virtù e di una tecnica attoriali più che perfette, le altre riguardano gli universi dell’Amore e della Femminilità. Per completare questa sua parabola vitale, provo a spiegarmi (se non riuscirò, sarà solo colpa mia). L’ammirazione che ho per Roberto Russo non attiene soltanto alla pietà meravigliosa che egli ha concepito nel dolore, dinanzi alla Donna adorata che era partita per il viaggio senza ritorno. Il mio riguardo si riferisce a un Uomo che con amore ha esaudito il di lei desiderio di approdare a una forma di pace con se stessa. Non ho mai incontrato Roberto Russo (non sono come Walter Veltroni che conosce tutti e colleziona figure del passato da rimpiangere in un album del secondo Novecento)… semplicemente  trovo che la sua impresa affettiva sia stata ineguagliabile, egli arrivando a essere la rappresentazione di un amore sublimato. Di un amore reciproco. Eterno.

Con Fernanda Casablanca, una carissima cugina che sa parlare l’inglese ironico, condivido l’origine messinese delle nostre madri. Ieri mi ha rivelato che in casa conserva un’immagine di Monica nel suo vestitino bianco di Prima Comunione. Mamma e papà Ceciarelli avevano donato quello scatto alle famiglie amiche degli anni siciliani.  Fernanda mi ha inviato la fotografia. Mi sono emozionato. Ci sta questa bimba in piedi sulla scalinata di una chiesa di Messina, sola a guardare l’obiettivo. Non sorride, non è triste, forse immagina di essere a giocare. Altrove. Ho pensato che erano trascorsi ottantadue anni; in tutto questo tempo ci aveva reso “tutte le sfumature dell’animo femminile” (sempre l’anglista) e lo aveva fatto ben dentro il Novecento. Sì, perché nel profondo ella aveva raffigurato tre donne di amore e di pensiero. Tre donne esemplari: la prima è Lou Andreas-Salomé a cui Friedrich Nietzsche, dopo il baciamano, si presenterà con la seguente domanda: «Da quali stelle siamo caduti per incontrarci qui?»; la seconda è Simone de Beauvoir, che serberà il più intimo segreto di Jean-Paul Sartre fino a rubargli l’essere e a consentirgli che pure “un essere vi fosse”; la terza, Hannah Arendt, la cui volontà di creare un interesse tra lei e Marin Heidegger, ossia un incantesimo divino, sorprese lui in certi limiti umani piuttosto deludenti. Questi tre differenti destini: l’impossibile, il resistente e il fantastico, Monica li rivivrà nel corso di una strana, solitaria ascesa, come quando chi ti sta davanti, a un certo punto, non lo vedi più. E lo cerchi invano.

Per lei, l’aver abitato in luoghi così alti del sentire e del pensare femminili non vale affatto l’invenzione di un elogio funebre. Se ella è stata rappresentazione delle libertà e delle attese di una donna del suo tempo, ciò è potuto avvenire grazie alla sapienza di inventarsi in colei che già era, per rimanere dentro e fuori di sé. E in ciò risiedeva il suo incanto. “Tutto è magia, o niente”, aveva scritto Novalis. Monica Vitti era tutto. Non è rimasto nulla.

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