Giuliano Capecelatro
Viaggio in una città-mondo

Irripetibile Napoli

Napoli sta vivendo un momento di grande successo; soprattutto in chiave turistica. Eppure è un coacervo di contraddizioni: culturali, urbanistiche, sociali. Una raccolta di interventi sulla città (intitolata semplicemente "Napoli") prova a chiarire l'arcano

Da qualche tempo, dopo averlo sempre disdegnato, provo l’impulso di parlare, e qualche volta (peggio!) scrivere, in napoletano. Un napoletano sgarrupato: lessico approssimativo, grammatica scorretta, sintassi irricevibile. Tuttavia persevero, nell’illusione di riannodare un legame reciso diversi decenni fa. Parthenope, sirena dall’aspetto di fanciulla, scioglie il suo canto insidioso. Ascolto e tento di risponderle a tono. Da dove nasce quest’improvvisa resipiscenza? 

In anni recenti Napoli – trascurata dopo un’epoca luminosa da tappa obbligata del Grand tour – ha conosciuto una considerevole fortuna pubblicistica, e conseguente ricaduta sul versante turistico. Da ultimo il potente New York Times l’ha inserita nella lista di cinquantadue posti da visitare nell’anno in corso, esempi virtuosi di un mondo che cambia. E Napoli, stretta tra il Vesuvio, i vulcanici Campi Flegrei e l’esplosiva insidia sottomarina di Ischia, se rischia di sparire per i sommovimenti tellurici, per ora se la deve vedere con la generale crisi climatica.

Ma avrebbe già cominciato a muoversi – cioè, alcuni suoi privati cittadini si sono mossi. Una piccola task-force dell’energia solare in azione a San Giovanni a Teduccio, zona tra le più disagiate della città. Illustrate le vicende ambientali, il Nyt allunga l’occhio anche sul paesaggio, e invita a percorrere l’“imperdibile” Pedamentina, interminabile scalinata che da San Martino sfocia su Corso Vittorio Emanuele, terrazzamento stradale tra Vomero e centro con panorami spettacolari.

Pochi anni fa le riviste Usa specializzate schifavano la città. Adesso Napoli si fa largo a spallate nell’ideale classifica del business turistico globalizzato. Lungo le sue strade antiche vagano masse eterodirette, spesso tableau vivant della Parabola dei ciechi di Peter Bruegel. La città grecoromana, scacchiera di cardi e decumani, nei periodi di festa è un imbuto asfissiante e si procede per sensi unici pedonali. I Quartieri spagnoli sono presi d’assalto; i b&b, autorizzati e al nero, festeggiano il tutto esaurito. La città imperversa in un profluvio di libri, articoli, film. Nonché in trasmissioni televisive ad alta audience e di facili banalità.

Sono nato a duecento metri dall’ormai celeberrima Cappella Sansevero, dove riposa il Cristo velato, noto adesso anche al Polo nord; e a trecento metri da un’altra meraviglia: le Sette opere di misericordia che Caravaggio, omicida in fuga dal carnefice papalino, concepì nel suo primo, breve soggiorno napoletano. Opera rivoluzionaria; per alcuni critici, il più importante dipinto del Seicento. Ma è il Cristo velato, scolpito più di un secolo dopo e negletto assieme alla cappella per oltre duecento anni, a tener lo campo, elevato a simbolo e richiamo del cospicuo patrimonio artistico della città.

Dalla fiera dell’ovvio e del cartolinismo sentimentale si distacca un volume uscito nella collana “The passenger” di Iperborea: Napoli, appunto, 192 pagine. Una raccolta di articoli tutti interessanti, acuti, che tentano di inquadrare le variegate anime della napoletanità e le sue quotidiane manifestazioni. Dall’insopprimibile vocazione monarchica (80% al re fellone nel referendum istituzionale del 1946), riversata in epoca repubblicana – argomenta lo storico Paolo Macry – sulla figura dei sindaci, Achille Lauro primo tra tutti. Passando per la vocazione musicale e le sue feconde contaminazioni con suoni di altre culture, fino all’appassionata analisi, firmata dal poeta (tifosissimo) Gianni Montieri, delle diverse modulazioni del tifo cittadino, che in Diego Armando Maradona ha incoronato l’ultimo re.     

Provo una sensazione tanto confusa quanto tenace, nel percorrere i neri lastroni di basalto che pavimentano il decumano maggiore, via dei Tribunali. Al termine piazza Bellini, epicentro di quel costume molesto che è la movida. In un piccolo recinto, sopravvive una minima porzione delle mura originarie, esposte al pubblico, che le utilizza come discarica.  Nel bene e nel male, sono la mia città, la mia culla; sono io.

Davanti alla chiesa delle anime pezzentelle, l’occhio corre ai due teschi bronzei issati su colonnine di pietra lavica. Ne ricordo tre nella mia infanzia; li vedevo ogni giorno nel tragitto casa-scuola (nell’elegante emiciclo di piazza Dante). Qualcuno si deve essere fatto un dono. A Napoli non può stupire. Pubblico e privato sono spesso divisi da confini labilissimi da un senso civico ridotto ai minimi termini. Le strade del centro hanno l’aria di repubbliche separate.  Altri costumi, altra etica, perfino altra religiosità: viscerale, idolatrica, primitiva. E altro potere, non certo l’ufficialità di palazzo san Giacomo. Potere dal volto criminale.

La sirena Parthenope è una creatura ambigua, che sguscia via come un pesce. Solo lo sguardo penetrante, il pensiero visionario, da poeta, consentono di afferrarne qualche tratto. Pier Paolo Pasolini sosteneva: «I napoletani sono oggi una grande tribù che… ha deciso di estinguersi, restando fino all’ultimo napoletani, cioè irripetibili, irriducibili, incorruttibili».  Evidente idealizzazione, sogno di un antico mondo incontaminato dalla modernità corruttrice del capitalismo consumista. Ma PPP ha genialmente còlto una prerogativa forte della città, estranea al ritmo hegeliano – magnifico e progressivo – della Storia, ostinatamente racchiusa su sé stessa, refrattaria alle plateali lusinghe della cosiddetta civiltà. Napoli è un presente sostanziato di un passato non dialetticamente superato, ma vivo e vitale. 

C’è uno iato considerevole, nella topografia urbana, che in qualche misura dà corpo a questa peculiarità. Nel parlato quotidiano, tra i cittadini del Vomero, sopravvive l’espressione “Vado a Napoli” (articolo di Cristiano De Majo in Napoli), come se il quartiere collinare fosse ancora sobborgo e non parte integrante della città. Forse perché il Vomero ha una netta fisionomia borghese – di piccola e media borghesia –, mentre il centro antico da secoli sembra dipanarsi tra i poli del plebeismo e dell’aristocrazia: realtà antitetiche poste gomito a gomito, basta gettare un’occhiata nei maestosi e decadenti palazzi dei decumani.

Due o tre, i bronzei teschi di santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco lanciano un segnale. Come non si dà cesura netta tra passato e presente, così vita e morte non si contrappongono ma si fondono in un’unica dimensione. I morti si adottano, si curano, invocano, vezzeggiano, sfruculeano e, se non danno ascolto alle tue richieste, insultano, come si fa con faccia ‘ngialluta, san Gennaro, patrono della città.

Un colloquio serrato, compunto e caparbio si svolge da secoli in decine di recessi, dai sotterranei di santa Maria delle Anime all’imponente cimitero delle Fontanelle, dopo lungo oblio assurto a immancabile meta turistica. È un morto ‘o monaciello, che si aggira furtivo per le case dispensando favori e dispetti. E gioca con la morte, secondo leggende ben architettate in una città che è fucina di leggende, la figura del principe Raimondo de Sangro di Sansevero, altra attrazione turistica, alchimista in fama (dallo stesso incentivata) di stregone. 

La sirena dal canto conturbante ha un rapporto stretto con la morte. Dalle sue spoglie sarebbe nato il primo nucleo della futura Palepolis, poi Neapolis. Morte, violenta, germina nelle sue strade, anche le più centrali e sussiegose. La camorra era già attiva e fattiva quando Giuseppe Garibaldi entrò in città (7 settembre 1860), accolto con lo stesso entusiasmo che sarebbe tracimato sugli Alleati verso la fine della seconda guerra mondiale.

Oggi la malavita agisce e ragiona da multinazionale (involontaria e beffarda allegoria del capitalismo senza lacci e lacciuoli). Ma non è un corpo separato. Le sue radici si diramano pe’ dint’ ‘e viche addò nun trase ‘o mare, per dirla con gli Almamegretta riecheggianti Anna Maria Ortese. In quegli agglomerati sovrappopolati, seminascosti, poveri quando non orfani di sole, c’è qualcosa di più di una semplice contiguità tra bande criminali e abitanti. Qualcosa che, quando non è militanza vera e propria, sfiora la connivenza, o almeno la corrività. Che assume la forma di una religiosità blasfema, nella creazione di nuovi idoli esposti nei murales, talora opere di artisti di rilievo, per la manovalanza del crimine caduta in servizio.

La sirena sa essere dura, spietata. Congiure, insurrezioni, esecuzioni, la storia della città non di rado mostra tratti truculenti. I lazzari, fedeli truppe di riserva dei Borbone pescate nei bassifondi, il pallonetto di santa Lucia innanzitutto, non conoscevano orrore, misericordia. Feroci, sadici.  Scrissero scene atroci nel soffocare la Repubblica partenopea del 1799.

Corre verso i tremila anni di vita, Parthenope.  Doppia come i femminielli che popolano i vicoli, come l’androgino Pulcinella, che ne interpreta l’animo. Crudele, col suo canto melodioso. Città difficile, spigolosa, respingente. Quando scendo dal treno e attraverso piazza Garibaldi, malgrado l’eccellente caffè del bar Mexico, ho la tentazione di scappare. Tutto è amplificato, tutto è confusione: folla, voci, traffico, canzoni. Martellante risuona il rumore ancestrale che scandiva riti, cerimonie della comunità. La tribù, già. Paese, geloso di tradizioni e culti immodificabili: “il più grande paese del mondo”, avevano battezzato Napoli i soldati americani nel 1944, liberatori di una città che si era liberata da sola. Metropoli, certificata dalle algide architetture del Centro direzionale. Non è New York, non è Parigi; ma ha qualcosa di entrambe- e non solo-, e tutto ricompone in una miscela particolare, originale, come fa con la musica. Pasolini (che ci perdoni la parafrasi) dixit: “irripetibile, irriducibile, incorruttibile”.

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