Pier Mario Fasanotti
Consigli per gli acquisti

Famiglie difficili

Da un lato, la nuova inchiesta di Alicia Gimèmez Bartlett che scava in un mondo dove tutti "devono essere belli"; dall'altro una coppia imperfetta di fronte alle sorprese della vita raccontata da Paul Guimard. Due modi di indagare sulla vita

Tutto in famiglia. L‘abbiamo detto, e forse anche ripetuto: la spagnola Alicia Gimèmez Bartlett è da considerarsi la più brava tra le gialliste (e non solo) d’Europa. Aspettiamo la versione italiana del serial televisivo prodotto e diffuso nel paese iberico. Giorno di indagini molto strano, per lei a cui, una volta tanto piacerebbe scavare nel fatuo mondo glamour. È sfortunata: le capita si sbrogliare un groviglio di certo medio: Ismael, è riverso sul tavolo, con il volto e le mani cosparsi di veleno per topi. Le analisi di laboratorio tarderanno. Una delle tante anomalie è che la porta d’ingresso risulta forzata. Una deviazione per le indagini? Forse, ma risulterà poi un ingenuo rompicapo, uno dei tanti. La vittima, un balordo in estrema sintesi, proveniente da una comunità di recupero ed ex informatico, ama le palestre seguendo il dictat di una parrucchiera, secondo cui «tutti oggi devono essere belli». In altri termini: depilazione dei pettorali (in effetti va di moda. È anche il titolo del racconto). È un senza lavoro, un profittatore: vive alle spalle della sua compagna Assunsiòn, estetista, e della madre di quest’ultima. I due poliziotti, Pedra Delicato e il suo vice, Firmin Garzon, pur continuandosi da darsi del lei, sono da anni in perfetta simbiosi mentale. Basta un gesto o una smorfia e si comprendono perfettamente. Nel tempo tra un’indagine e l’altra si godono birra e piatti in hosterie molto tipiche. I loro rari disaccordi, mai espressi ad alta voce, rasentano spesso la comicità.

Questa indagine, sotto un’ombra sordida, è il primo racconto della raccolta che a ogni festività viene pubblicata dalla Sellerio (598 pagine, 16 Euro) col titolo Una settimana in giallo. A pressare i due detective è il commissario Coronas, che vorrebbe risultati pressoché immediati, o quasi. Snobbando, appunto, i delitti che non siano dell’alta società. Le analisi tossicologiche e quelle comprese nel deep web («il grande mostro» odierno), arrivano a una chiarezza: il catalano Ismael è stato avvelenato al polonio, la stessa sostanza che ha colpito anni fa in Gran Bretagna, la spia russa Litvinenko. Come è stato somministrato il veleno allo spagnolo? C’è un altro elemento, importantissimo ma per nulla scientifico: la parrucchiera, convivente con la vittima, ha gusti sessuali, ormai diffusi, che però nel caso in questione è foriero di sospetti: Sara, la fidanzata “ufficiale” della vittima, ha una relazione passionale con un’amica (non parrucchiera). La stessa ispettrice si stupisce, sorridendo, su come viene chiamato questo genere di forte e indiscussa attrazione sessuale: «Amore il ciuffo» (l’allusione è più che evidente).  Non l’aveva mai sentita prima, e questo a noi lettori pare alquanto strano. Seguendo la regola di non svelare tutto a chi leggerà il bellissimo racconto di Alicia Gimènez Bartlett, aggiungiamo che ci sarà un altro atto di estrema violenza. Alla fine la disperante confessione del colpevole.

Degno di estrema attenzione è anche il racconto di Gaetano Savatteri, dove il linguaggio passa dal sontuoso al comico. C’è di mezzo la mafia, il cibo e lo sberleffo. Savatteri nato a Milano 57 anni fa, ma si è sempre distinto come raffinato conoscitore della mafia e della n’drangheta (tra i suoi libri più noti I siciliani)

Purgatorio. Tra i primissimi ricordi di questa singolare esistenza c’è Bob, col quale diventava protagonista di «mattine gloriose». Avevano quarant’anni in due. E cacciavano nelle pianure, lungo i fiumi e nelle boscaglie, senza mai uccidere una preda, «rifiutando «la volgarità delle armi e la banalità delle trappole». Circondavano gli animali, li osservavano per lungo tempo. Si era alla vigilia del 1940. Poi l’assurda disgrazia: a Le Mans cade dal cielo una bomba americana. Bob muore: «L’ordigno è caduto a qualche metro da lui mandandolo diritto al cimitero dove ora finisce di consumarsi tra un produttore di paté di maiale e un caporeparto della manifatturiera dei tabacchi». Pierre, il sopravvissuto, diventerà avvocato, dopo aver fatto «Nel momento clou della sua vita ricorderà l’avvertimento di Hélène: «Vai piano, non correre». Lei è la compagna dalla quale vorrebbe separarsi avendo in testa e nel cuore Aurélia, compagna di scuola. Se Hélène appartiene alla «mitologia dell’adolescenza», Aurélia gli sfuggirà sempre, o perlomeno sarà soltanto un amico piuttosto che un’amante, e ciò malgrado lo sfioramento dei corpi che non raggiungerà mai la vera e totale intimità. Aurélia sboccerà come fiore maturo sposando poi un militare. Un gran numero di pagine di questo romanzo, Le cose della vita, divenuto «culto» in Francia (il pozzo letterario del ‘900 è stranamente poco esplorato, almeno finora) l’autore, Paul Guimard (1921-2004) lo dedica, con una esattezza talvolta prolissa, a un incidente automobilistica, al volante, lui, di una MG che corre a circa 140 l’ora prima di sfasciarsi tra un furgoncino e un camion che trasporta maiali.  Dal breve romanzo (pubblicato del ’64, regolarmente ristampato e ora tradotto da L’Orma, 114 pagine, 15 Euro) sono strati tratti due film: uno buono, con Lea Massari e Michel Piccoli, e uno mediocre (si parlerà di «clamoroso flop»).

A parte la dinamica del disastro automobilistico, la figura della convivente è analizzata al microscopio. «Le parole degli altri restano per lei un rumore confuso e indistinguibile… non le interessa tanto capire quanto far coincidere l’universo con i suoi schemi interiori… chiunque le rivolga la parola è, almeno in potenza, un accusato… ormai sono anni, Hélène – dirà il protagonista in un monologo appeso al niente – che peroro la mia causa e mi difendo, ma tu non assolvi mai nessuno… concedi deroghe ma solo col beneficio del dubbio… il processo intentato altri non vedrà mai la fine… per quanto riguarda me, sono soltanto un po’ meno “altro” degli altri, un imputato che gode del privilegio di una certa clemenza». Una donna fredda, che ha in sé un nucleo forte di arroganza. L’autore non scava affatto sulle proprie colpe. Hélène, quando si recherà in ospedale (le formalità, innanzitutto) avrà tra le mani una busta. Contiene l’addio e forse molto altro tra cui l’accusa di aver trasformato lo stare insieme in una farsa: «Non stavamo facendo niente di proibito, eppure eravamo senza dubbio colpevoli. L’innocenza non ci riguardava più. Dentro di noi, in fondo, ci sentivamo molto infelici». Hélène, di fronte a un quasi cadavere, leggerà a fondo la sostanza della disfatta? Sta di fatto che le frasi del moribondo, scritte tre mesi prima, non sono certamente destinate a una donna così arida e pervicacemente così mortificante.

Toccanti sono le pagine con le quali l’autore descrive gli ultimi minuti dell’avvocato, in quale ragiona sulla propria arrendevolezza: «Non mi posso allontanare da lei senza vacillare nel vuoto della sua assenza, ma al tempo stesso mi risultano talvolta insopportabili le sue spigolosità…scalfendo il cuore di tutti col suo spirito corrosivo…se esito è per vigliaccheria, per tenerezza, e perché è una donna collerica quanto incredibilmente fragile, e il dolore ricopre il viola intenso dei suoi occhi di una patina di pallore per me intollerabile».  Il medico ospedaliero si accorge che c’è ben poco da fare, anche se il paziente a volta muove gli occhi. Accanto a fugaci desideri – vorrebbe che Aurélia gli offrisse una mela – pensa che «in merito alla vita, all’amore, alla giustizia, alla guerra e simili, ci si da molto da fare per formarsi delle idee personali, almeno un po’ ripulite dalla patina delle più banali convenzioni e scemenze…ma quando si arriva al capitolo finale, quello della morte, ecco riaffacciarsi in noi un bambino selvatico, tormentato da impulsi confusi e immagini elementari, visioni semplicistiche d’un mondo altro, antropomorfo, che assomiglia fin troppo al nostro».  Sorride, biascica parole. Infine la domanda fondamentale: «Siamo veramente burattini? E per il divertimento di chi?». Da cadavere si vede proiettato in un’altra dimensione, nostalgicamente incuriosito dalla mancanza delle ossa. È ben consapevole che la morte «ha il ringhio di una iena». In quel nuovo mondo che s’immagina dopo il decesso, lo attanaglia la dolente certezza che «senza un corpo l’altro non potrà nascere, e il suo destino sarà di un nato morto».

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