Ettore Catalano
A proposito del "Cuoco dell'imperatore"

Il cuoco di Federico

Raffaele Nigro torna a raccontare l'epopea dell'imperatore svevo che lo aveva già reso celebre. Ma questa volta, il romanziere guarda la grande storia dalla cucina: un dietro le quinte che favorisce lo svelamento di vicende che mescolano alto e basso

L’epopea federiciana aveva già attirato l’attenzione di Raffaele Nigro negli Anni Ottanta del trascorso secolo, prima del successo narrativo dei Fuochi del Basento (1987) e della Baronessa dell’Olivento (1990): in quelle occasioni si era trattato di due testi teatrali come Hoenstaufen (1985) e Il Santo e il Leone (1987) nei quali Nigro aveva scelto di prescindere del tutto dall’intento di riportare spezzoni biografici incompleti della vicenda storica di Federico II, assumendo, invece, punti di vista apparentemente tangenziali, attraverso un gioco di incastri onirici che intrecciavano il passato storico dell’imperatore svevo con le oscillazioni interpretative che, ancora oggi, addensano suggestioni e interrogativi, in una scrittura teatrale che si aggirava nei labirinti del tempo e nei misteri dei possibili sottotesti.

Una operazione analoga reggeva Il Santo e il Leone, una pièce che suggeriva, nel finale comico-plautino, una visione della storia come accumulo di congetture e supposizioni, nell’apparente forma di un dramma storico che poneva a confronto una caratterizzazione arabo-mediterranea di Federico II e un’immagine non scontata del poverello di Assisi, certamente non in accordo con le gerarchie ecclesiastiche del tempo.

Dopo alcuni anni di incubazione, è uscito, negli ultimi mesi del 2021, Il cuoco dell’imperatore (La nave di Teseo), una lunga cavalcata nell’epopea federiciana vissuta attraverso l’invenzione narrativa di un personaggio laterale, una interessante figura di cuoco-medico, nativo di Melfi, Guaimaro delle Campane, la cui esistenza si intreccia con quella di Federico II, seguendone le vicende dalla Sicilia alla Germania, nel costante confronto-conflitto con papi-re, più interessati al potere temporale che alla cura delle anime.

Tale scelta consente uno sguardo più libero e meno ricattato da interessi storici (o anche storiografici), liberando la rutilante scrittura da cantastorie del Nigro migliore, nel quale la capacità dello scrittore melfitano di recupero antropologico dell’immaginario popolare ha modo di evidenziarsi dentro una fitta ragnatela scrittoria nella quale l’italiano letterario viene sostenuto e irrobustito dalla libertà inventiva, dal dono dell’invenzione e della musica dei nomi, dal ritmo da cantastorie che salda insieme il dialogo tra vivi e morti, il mottetto, le strofe e i proverbi contadini rielaborati e inseriti nel tessuto di una vicenda che sarebbe una imperdonabile svista classificare come romanzo storico e non come epopea che guarda l’erba dalle radici, come ha sempre affermato Nigro per i suoi romanzi di maggior successo.

Guaimaro, tra fughe, viaggi e spostamenti continui al seguito della corte itinerante dell’imperatore, matrimoni, relazioni sentimentali e figli, diventa, a poco a poco, non solo l’assaggiatore del re svevo (onde evitare avvelenamenti), ma il solo sapiente artefice dei sapori a tavola del re, offrendo una gustosa varietà di cibi, in cui la dominante cucina appulo-lucana si sposa con le mescolanze arabo-siciliane, in una infinità di ricette che attraversano le pagine del libro.

Guaimaro è anche, come ha appreso già nella sua Melfi, una specie di medico attento alle erbe e ai decotti, un “medico” che risolve spesso i problemi di salute di Federico II, di cui finisce col condividere i disegni politici e la missione imperiale, anche se, nelle pagine che ritraggono le vicende legate alle due scomuniche e alla diplomatica crociata che non ubbidisce alla sete di sangue e di morte dei papi, oscilla nel dubbio come credente e cerca una assoluzione per avere in qualche modo partecipato alle visioni dell’imperatore come Anticristo.  

Nel fluire della narrazione, Nigro non nasconde le zone d’ombra del re svevo, la sua crudeltà alternata a volte alla generosità, il franco appetito sessuale, i pochi amori veramente tali, le cocenti delusioni dei figli, i tradimenti dei fidi consiglieri, la continua ricerca, tuttavia, di un potere non disgiunto dalla cultura e dai libri (il figlio di Guaimaro, Ruggiero, darà una differente visione generazionale della politica sveva nei confronti dei Comuni dell’Italia del Nord). Nel finale riemerge, in tutta evidenza, la diffidenza nei confronti della ferocia della storia e Guaimaro finisce coll’accucciarsi «nel ventre di Gudrun (la moglie tedesca) e di quel nostro mondo addormentato».

Una prova che riporta in libreria un autore che ha liquidato, in tutta la sua affermata e premiata carriera, le due versioni del meridionalismo subalterno e populistico (quella veristica e quella di derivazione neorealistica) nel giro ampio di un orizzonte narrativo epico-affabulatorio, «storie dal fondo di un pozzo, senza perdere di vista ciò che all’interno del pozzo stava accadendo», come lo scrittore stesso ebbe a dichiarare in una intervista.

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