Sabino Caronia
A cinquant’anni dalla morte

Diffidare di Buzzati

I critici lo guardavano per lo più con sussiego, forse perché era un giornalista, e gli rimproveravano la vena fantastica e l’estrazione borghese. Ma l’interesse che l’anniversario riaccende sull’autore del “Deserto dei Tartari” non può che confermarne la grandezza

Forse l’immagine più viva e più significativa di Dino Buzzati è quella dell’autore del Deserto dei Tartari che, ormai malato e vicino alla morte, è costretto a fare anticamera di fronte alla porta della direzione del “Corriere della Sera” dove il politico che lo dirige è impegnato in altra conversazione. Così lo descrive Giovanni Mosca nelle pagine conclusive del suo ultimo romanzo intitolato La signora Teresa. La ricorrenza dei cinquanta anni dalla morte ha riportato di stringente attualità il nome di Dino Buzzati. Nei confronti dell’opera del grande narratore bellunese, la critica è stata spesso assai ingenerosa. Giacomo Debenedetti, riprendendo a proposito dei Sessanta racconti il giudizio estremamente positivo di Emilio Cecchi in una recensione a Il crollo della Baliverna, ne ridimensionava la portata. Secondo il giudizio del critico torinese in quel suo scritto, intitolato significativamente Buzzati e gli sguardi del di qua, lo scrittore dimostra evidenti limiti. Egli «maneggia strumenti nati per creare il brivido cosmico, ne ottiene misurate, sopportabili emozioni». Come il protagonista di un suo racconto, anch’egli «è un borghese stregato, stregato ma borghese, e fedelmente e con educazione così perfetta da diventare anche stile». 

Ciò, a giudizio del critico, trova conferma nei limiti dello stile: «La sua parola, la sua frase paiono fatte apposta per mantenersi nel modo più ligio, a livello quotidiano delle apparenze. La parola non ambisce di immedesimarsi, impressionisticamente o espressionisticamente, con la materia sensibile o la sostanza ineffabile delle cose. Rimane il segno convenzionale, di cui tutti ci serviamo per la nomenclatura ordinaria. E la frase sembra, per lo più, che si contenti di mettere in ordine quei nomi, di indicarne i nessi, di articolare le azioni, secondo le regole della comunicativa più abituale». Certo del saggio di Debenedetti non si può non sottoscrivere il seguente giudizio: «Ci sono scrittori di cui si dice, a maggior lode, che per loro il mondo esterno non esiste. Buzzati è invece uno scrittore per cui il mondo esterno esiste, ma a patto che sia anche un indizio o uno stemma di qualcos’altro da ciò che è. Le apparenze contano solo se dai loro tratti familiari e inalterati emani un magnetismo di apparizione. Non debbono, di regola, scoccare uno sguardo speciale che ci metta sull’avviso. Il caso ideale è quando agiscono normalmente su uno o parecchi dei nostri sensi; ma nello stesso tempo, e senza che si disturbino a prendere iniziative fuor via, diventano stimoli del sesto senso». Ma come non dissentire vivamente dal grande critico quando considera tutta la narrativa di Buzzati un itinerario ai limiti dell’«universo a noi proibito» che si arresta al di qua, appunto, dei suoi esiti estremi e finalmente conclude: «Bisogna essere artisti più invasati, più coatti, e anche più sostanziali di lui, per sentirsi arruolati al servizio ossessivo di un unico tema»?

Una inquadratura del film di Valerio Zurlini tratto da “Il deserto dei Tartari”

Sulla sua scia Giorgio Bocca a proposito de Le notti difficili premetteva che Buzzati è uno scrittore che gli piaceva, anche se era un «reazionario allo stato puro» indicandone i limiti. Ed ecco, a suo giudizio, i due “rischi” di Buzzati: di essere un «cretinetti che si balocca con le favole e che rifiuta il nuovo perché non lo capisce; e di stare oggettivamente dalla parte di coloro i quali vogliono che tutto stia fermo com’è per non perdere un solo dei loro privilegi». Ma c’era di più. Bocca denunciava anche quello che per lui era il «difetto capitale» di Buzzati: il rifiuto non dico del progresso, ma della storia. Questi rilievi non squalificano Buzzati ma chi li muove, soprattutto se si tratta di uno come Giorgio Bocca il quale a chi, come Pietro Citati, si permette di rivendicare agli scrittori il diritto di innalzarsi al di sopra del proprio tempo risponde con malgarbo accusandolo di presunzione. Tra i motivi dello scarso consenso critico bisogna ricordare che Buzzati proveniva dal giornalismo e perciò molti letterati lo guardavano un po’ dall’alto per una sorta di ingiustificato complesso di superiorità: già nel 1933 infatti, l’anno del suo esordio narrativo con Barnabo delle montagne, Buzzati lavorava nella redazione del “Corriere della Sera”, dove era entrato nel 1928. Inoltre si può aggiungere che i suoi libri, tra i quali spiccano per eccellenza, con Il deserto dei Tartari, quei Sessanta racconti con cui Buzzati vinse il Premio Strega, si iscrivono nella dimensione, poco praticata fino a quegli anni nella nostra letteratura, del fantastico, un fantastico che nasce spesso dalla cronaca o dalla cronaca prende avvio per invenzioni ora angosciose, ora suggestive ma sempre inquietanti sul mistero che circonda la nostra vita e che all’improvviso penetra dentro come da uno spiraglio, da un oblò lasciato chiuso, motivi che sono agli antipodi degli schemi e dei moduli narrativi di impianto naturalistico prevalenti nel neorealismo letterario allora imperante.

Infine ancor più doveva pesare sul giudizio dell’opera di Buzzati la mancanza nell’uomo e nello scrittore di qualsiasi forma di engagemento impegno socio-politico, in ciò in linea con altri grandi del suo periodo come l’autore del Gattopardo e quello del Giardino dei Finzi Continiche dovevano conoscere, accanto a un larghissimo consenso di pubblico, analoghe riserve da parte di una critica non disposta a riconoscere come altro e ben diverso dovesse essere l’impegno, libero da condizionamenti o mode, di un vero artista. A quell’impegno appunto rispondono i libri di Buzzati che più sono destinati a durare nel tempo e meglio permettono di conoscere i modi e le forme della sua attività. Esemplare, nella sua perenne attualità, è naturalmente Il deserto dei Tartari dove la storia del tenente Giovanni Drogo esprime in forma allegorica e simbolica un senso della vita come attesa e solitudine che non può risolversi se non nella rinuncia o nella sconfitta. Inviato in un fortino al confine del deserto, Drogo vi attende per tutta la vita il nemico e la gloria sperata. Ma solo con la morte dopo anni di vana attesa, egli dà senso alla sua vita, consumata nella dignità del dovere. È un senso concreto della vita e dell’ordine che la esprime, cui lo scrittore non sa e non vuole rinunziare, malgrado tutte le negazioni che giorno per giorno ha dovuto infliggere al suo eroe: «La camera si è riempita di buio, solo con grande fatica si può distinguere il biancore del letto, e tutto il resto è nero. Fra poco dovrebbe levarsi la luna. Farà in tempo, Drogo, a vederla o dovrà andarsene prima? La porta della camera palpita con uno scricchiolio leggero. Forse un soffio di vento, un semplice risucchio d’aria di queste inquiete notti di primavera. Forse è invece lei che è entrata, con passo silenzioso, e adesso sta avvicinandosi alla poltrona di Drogo. Facendosi forza, Giovanni raddrizza un po’ il busto, si assesta con una mano il colletto dell’uniforme, dà ancora uno sguardo fuori della finestra, una brevissima occhiata, per l’ultima sua porzione di stelle. Poi nel buio, benché nessuno lo veda, sorride».

La dimensione metafisica della narrativa di Buzzati troverà quella che è forse la sua più compiuta espressione, solo poco tempo dopo Il deserto dei Tartari, in quello che è forse il più straordinaro racconto della raccolta I sette messaggeriIl sacrilegio, un racconto che, non a caso, suscitò così vivo interesse in Federico Fellini e che, a ben vedere, consiste essenzialmente in una lunga e profonda interrogazione sul senso religioso della vita. 

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