Lidia Lombardi
Una lettura del burattino

Pinocchio e il re

A un secolo e mezzo di distanza, rileggiamo il capolavoro di Carlo Collodi attraverso l'elogio critico che ne fece Pietro Pancrazi. Una metafora del Paese e delle sue contraddizioni: «Non ridete; ma dietro Pinocchio io rivedo la piccola Italia onesta di Re Umberto»

Centoquaranta anni fa, sul “Giornale dei bambini” appena fondato, uscì la prima puntata di La storia di un burattino, ovvero Pinocchio. Fu subito un successo travolgente, tanto che Carlo Lorenzini, l’autore che prese per pseudonimo Collodi, dal paese natale della madre, dovette prolungare le puntate oltre l’iniziale progetto – il libro si concludeva con l’impiccagione del protagonista – e dunque la pubblicazione di Le avventure di Pinocchio andò avanti fino al 1893. Un classico rivoluzionario, una favola senza prìncipi né carrozze dorate. Al quale, esattamente un secolo fa, Pietro Pancrazi – toscanissimo critico letterario e scrittore, nella cerchia di Giuseppe De Robertis, Giovanni Papini, Ugo Ojetti – dedicò un Elogio che entrerà nel libro Venti uomini, un satiro e un burattino edito a Firenze da Vallecchi due anni dopo, nel 1923.

Esordisce d’impeto, Pancrazi. “Ho riletto Pinocchio, lo faccio ogni anno alla cara stagione della neve e delle castagne” scrive con balzo poetico che colloca il luogo della lettura in un interno accogliente senza sfarzo, di una piccola borghesia di provincia, che poi non si distanzia troppo dal milieu dei personaggi collodiani. Chissà perché, si chiede immediatamente dopo, chissà perché il rito si ripete con tanta puntualità. Insomma, perché la storia umanissima del pezzo di legno scolpito da mastro Geppetto e diventato infine in carne ed ossa, dopo un lungo percorso di formazione, resta un punto fermo della sua vita privata e professionale?

E qui sciorina diverse spiegazioni, in un ordine che è in realtà un artificio critico e letterario, ché  nessuna lo convince veramente e tutte le scarta per arrivare rapido – il saggio è denso ma breve  – al nocciolo della questione.

Sarà perché “Le avventure di Pinocchio” lo fanno tornare bambino? Romantica risposta, ma quanta fatica il viaggio a ritroso negli anni. “Quel rimpianto significherebbe un ottimismo non so se eroico o imbecille: vorrebbe dire esser pronti, potendo, a ricominciare…”.

Sarà allora un’abitudine letteraria, una deformazione professionale, al fine di confrontare impressioni nuove e vecchie? Forse, ma l’esercizio non lo convince, depurato com’è dall’adesione sentimentale alla pagina.

Sarà allora per rinvenire ogni dodici mesi – mentre avanza la cronaca di un’Italia fresca di unità nazionale, di sgomento per la Grande Guerra e di malcontento sociale – nuovi insegnamenti morali? Magari sì, però anche in questo caso si lavora più di testa che di cuore, quel cuore per il quale Pinocchio dev’essere probabilmente una calamita affettiva se non si riesce a distaccarsene. E infatti, sgorga empatica l’ammissione di Pancrazi. “Sarà magari per tutte queste ragioni; ma più semplicemente vorrei dire che ogni anno ricerco Pinocchio, perché ogni anno sento di volergli più bene”.

Pietro Pancrazi

Eccolo allora il quid, l’anima che Lorenzini ha infuso nel suo personaggio, rendendolo perfettamente riconoscibile e amabile. Pinocchio è l’eroe di tutti, dei poveri e dei semplici soprattutto, che si accontentano di immaginare un focolare dove si cuoce il cibo, tant’è che Geppetto ha dipinto su una parete il camino e la pentola che non possiede. Il mondo di Pinocchio, quello vagheggiato, è a portata di mano, nella porta accanto. Perfino il personaggio più fantastico, la fata, è, nelle illustrazioni con le mani sui fianchi e le pianelle, come “una serva del Casentino”. E il borgo, al pari della città, pullula di buona gente e di poveri diavoli, un universo parallelo rispetto a quello dei potenti e prepotenti, ma dal quale è partita la maggioranza dei cittadini.

Nella necessità – da parte di Pinocchio & C. – di arrangiarsi per schivare le insidie quotidiane, Pancrazi individua un’analogia di grande finezza critica. Il burattino, condannato a quattro mesi di prigione per aver denunciato il furto delle monete d’oro, memorizza l’ingiustizia e allorché rischia un’altra reclusione (perché incolpato di aver scagliato contro un compagno il libro di matematica) si fa giustizia da sé, dandosela a gambe. Un’arte del travisamento e della fuga che mette in atto anche il manzoniano Renzo, quando ingenuamente si trova invischiato nella rivolta del pane in un’affamata ed estranea Milano.

La programmatica medietà, la scelta di un tono piano e onesto “che concilia il lettore alla morale modesta e solida di Pinocchio” resiste anche allorché il plot vira verso l’inverosimile o il fantastico. Geppetto vive nella pancia della Balena perché nell’antro si è ricreato la propria stanzetta, riuscendo perfino ad accendervi una candela, a dispetto degli umidissimi umori viscerali che lo avvolgono. E quando Pinocchio lascia i panni del burattino, del pezzo di legno che lo affratella agli Arlecchini e Pulcinella della Commedia dell’Arte ritrovati nel teatrino ambulante di Mangiafuoco, non diventa un ricco o potente, un re, come da copione nelle favole. Diventa invece un ragazzino buono ed educato, che, aggiungiamo noi, presumibilmente lascerà il testimone all’Enrico Bottini del libro Cuore, pubblicato da Treves nel 1886.

E però Pancrazi, che in questo Elogio di Pinocchio aveva subito detto di non rimpiangere l’infanzia, qualche nostalgia per il passato ce l’ha. Gli manca l’Italietta di fine Ottocento, quando i ragazzi finivano i compiti dopo cena al lume comune della casa (“tra il crocè della mamma e il silenzioso giornale del babbo”), nessuno veniva bastonato, far forca “voleva dire semplicemente una bella passeggiata fuori porta; non era una manifestazione politica…” e la notte si sentiva soltanto il “calmo passo doppio dei carabinieri”.  Invece, quel 1921 nel quale Pancrazi scriveva l’Elogio aveva visto trasformarsi i Fasci Italiani di Combattimento, nati nel 1919, in Partito Nazionale Fascista. L’anno successivo sarebbe stata l’ora della Marcia su Roma. Ecco perché Pancrazi si guarda indietro, e amando anche politicamente Pinocchio conclude: “Non ridete; ma dietro Pinocchio io rivedo la piccola Italia onesta di Re Umberto”.

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