Danilo Maestosi
Al Maxxi di Roma

L’etica di Hirshhorn

L'artista svizzero Thomas Hirschhorn espone i suoi collage che dietro ai pixel raccontano il mondo e le sue terribili contraddizioni. Una galleria di orrori, assassini e scene di terrore "sfuocato” che impongono allo spettatore una domanda: si può fare arte col dolore?

Un mausoleo dell’orrore e della rimozione collettiva che ne allontana o ne camuffa, a presenza. È l’enorme labirinto di squillanti tramezzi monocromi che accoglie e inghiotte il visitatore della mostra La lunga linea viola inaugurata al Maxxi dove terrà cartellone fino al 6 marzo. Porte, nicchie, gradinate corridoi e viottoli in discesa e in salita: un percorso che ti obbliga ad addentrarti in una sorta di casbah costellata di immagini ritagliate in aperto conflitto, rubate al campionario patinato delle riviste di moda e al caotico catalogo di atrocità che circolano su internet. E poi contrapposte in una stessa artificiosa inquadratura a generare spaesamento, dubbi, disgusto.

È il monumento a tesi che ha disegnato e allestito con la produzione dell’ultimo triennio nella ripida e sghemba galleria al primo piano del museo romano uno dei più rinomati interpreti del filone pop dell’arte contemporanea: lo svizzero Thomas Hirschhorn. 64 anni, svizzero nato a Berna, una formazione da grafe stampateico emerso in scena a Parigi all’inizio degli anni Ottanta con un gruppo di designer decisi a trasformare in azione politica il linguaggio della pubblicità, che poi ha abbandonato per dar vita a vari cicli di istallazioni apparse e premiate sulle più prestigiose ribalte dell’Occidente.

La specialità che ne ha sigillato la fama è l’uso del collage. Immagini ritagliate che provengono da riviste e giornali e altre prese da Internet, stampate e poi ingrandite come fotocopie. Un linguaggio esplorato dalle avanguardie primo Novecento e dal movimento Dada, ma ormai declassato come esperienza a portata di tutti, praticabile e praticata per divertimento anche dai bambini. Un terreno di facile accessibilità, in apparenza neutrale e senza sovrappesi estetici, nel quale Hirschhorn ha deciso di incanalare la sua ricerca espressiva e la sua anarchica visione della politica e del mondo. Una volontà di liberare e liberarsi da schemi e condizionamenti che ingabbiano emozioni e pensieri.

«Voglio mettere insieme – spiega Hirschhorn che tiene molto al gioco di intenzioni che c’è dietro ogni sua mostra e che esibisce anche qui in un’apposita bacheca – ciò che non può essere messo insieme, penso che questo sia lo scopo di un collage ed è la mia missione d’artista… Voglio mettere tutto il mondo nei miei collage… voglio esprimere il mondo frammentato in cui vivo… voglio affrontare il caos, l’incomprensibilità, l’inconcludenza del mondo non portando la pace o la tranquillità».

Il secondo strumento operativo del suo lavoro sono i pixel. I segmenti apparentemente invisibili che compongono, sgranano ogni immagine riprodotta, e danno vita e sfumature al colore, di cui l’autore sfrutta come contrappunto la valenza cromatica. Ma soprattutto sono le sfocature dosate dai mass media con cui si nascondono volti e particolari di scena che per varie ragioni si preferisce cancellare. E che nella sua foga di verità l’artista considera sempre come atti inammissibili di censura, abusi di potere. Un dilagare di ipersensibilità che non è a suo avviso mai innocente anche se giustificata da scelte morali, ma risponde a una precisa strategia che fa da scudo alla sensibilità autentica di uno sguardo che deve rimane vigile e cosciente di ciò che ha intorno senza negarlo.

È il doppio registro, tecnico e filosofico, con cui Hirshhorn ha composto ognuna delle oltre cento tessere riunite nel mosaico complessivo di questa istallazione.

Ogni immagine dettata dallo stesso spartito di contraddizioni. Spezzoni prelevati da riviste di moda o fotocronache urbane di quotidiana normalità poi ricomposti attraverso il trattamento sfocato dei pixel per trasformarli in fantasmi e quinte colorate, evidenziando l’uso pubblicitario e la mistificazione che li ha generati. E a fianco dentro queste cornici posticce altre sequenze visive, pescate in rete, che documentano senza veli lo spettacolo di atrocità e di barbarie delle guerre, delle vendette, degli atti terroristici che insanguinano il mondo lontano dagli occhi della gente qualunque. Relegati quasi sempre in luoghi cui non si riesce a dare nome: potrebbero essere una strada o una piazza di Beirut o di Damasco, di Bagdad o di Kabul. Non riconoscerli li allontana ancora di più, ci autorizza ad accantonarne il ricordo più facilmente. Senza nome come tracce di un mondo parallelo e remoto restano anche i corpi martoriati stesi in terra che i montaggi della Lunga linea viola ci sbattono in faccia.

Senza pietà. Con una dose di calcato cinismo che raggiunge il suo culmine in due quadretti, affiancati: nel primo l’immagine pixelata di una modella che mostra una borsetta di marca, nel secondo lo spazio di quel cimelio d’alta moda sostituito dalla testa grondante sangue di un uomo decapitato. Uno dei tanti supplizi decretati dai guerriglieri dell’Isis.

Ed è qui che tocca a noi spettatori di questa rivisitazione brutale fare la nostra parte. Come dovrebbe capitare sempre se un’opera d’arte è davvero un’opera aperta, traguardo al quale dovrebbe aspirare ogni parto davvero creativo. Giusta, o sbagliata, insomma, questa macabra esibizione di un’esecuzione in nome di un Dio, trasformato in una marionetta muta manovrata da ventriloqui, che ci colpisce come un insulto all’umanità. È un dubbio che da giornalista ho vissuto di fronte a queste manifestazioni di cieca violenza, approvando la decisone di non pubblicarla. Perché alla notizia non aggiungeva altro che ulteriore sadismo. Una censura che offende la libertà di pensiero ogni obbligo di memoria e condivisione, come sostiene Hirshhorn, o un atto di rispetto che dobbiamo ad ogni uomo ucciso da un altro uomo e ridotto dalla morte a fantoccio?

E ancora: è davvero un’ipocrisia porci questa domanda, che ci obbliga a interrogarci e distinguere caso per caso? E non è invece ipocrita la scelta di Hirshhorn di mescolare etica ed estetica in una messinscena da museo, in un dar scandalo che aumenta le sue quotazioni ed i suoi incassi d’artista controcorrente? Ipocrita e sommaria la sua condanna sull’uso censorio dei pixel che fa di ogni erba un fascio e non esita ad usare come esempio persino la regola di sfocare i volti di un poliziotto o di un testimone impegnati in un’indagine che ne mette a rischio la vita? E ci aiuta davvero a stare nel mondo che volenti o nolenti, tutti, noi e lui dobbiamo abitare?

E, infine: con quale bilancia dobbiamo misurare e pesare le sue affermazioni riportate in bacheca: «Sono contro l’informazione, contro la comunicazione, contro i fatti e contro le opinioni»? Come se a giustificare questi quadri e la raccolta non ci fossero relitti di fatti accaduti e una catena di opinioni spacciate come unica verità possibile?

Domande e dubbi che restano in sospeso, non meno inquietanti e disturbanti della confezione di immagini che ci sfilano davanti. Lodevole dunque la decisione del Maxxi di affiancare alla mostra un cartellone parallelo di incontri e dibattiti che ne accompagnerà l’intera durata.

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