Gianni Cerasuolo
A un anno dalla morte del mito

Il MaraMinà

«Maradona con me, semplicemente, si confidava, perché sapeva che non l’avrei sfruttato, né avrei travisato le sue parole come hanno fatto in molti»: Gianni Minà parla di Diego. Uomo, ribelle, campione, vittima, genio solitario che adesso dorme abbracciato a un pallone

«Diego mi ha lasciato un messaggio nella segreteria del mio smartphone. L’ho ascoltato troppo tardi. È morto solo, e questo è troppo triste». La ferita è ancora aperta e Gianni Minà, un anno dopo la morte di Diego Armando Maradona, non riesce a dimenticare. «L’ho ascoltato troppo tardi…» ha continuato a ripetermi, quasi avvertisse il peso di quella disattenzione. Ed io sento un rincrescimento nell’avergli chiesto: «L’ultima volta che hai sentito Diego, che cosa vi siete detti?».

Gianni Minà, giornalista, scrittore e personaggio televisivo tra i più noti (L’altra domenica, Blitz, La Domenica sportiva, sono solo alcuni degli storici programmi della Rai che lo hanno visto protagonista), conoscitore come pochi dell’America latina, uno che ha intervistato Muhammad Alì e Fidel Castro, che ha diffuso le storie di sofferenza di Rigoberta Menchù e di Silvia Baraldini, ha guardato Maradona sempre con occhi diversi di quelli del puro cronista sportivo. Ha trascorso giornate e nottate a parlare a lungo con il campione argentino, scomparso un anno fa, il 25 di novembre, in circostanze non ancora chiarite che sono oggetto di una inchiesta della magistratura argentina. Chi lo doveva curare non lo ha fatto, lo ha lasciato morire: questa è l’accusa.

Ho pensato di porre qualche domanda a Minà che ho conosciuto ai tempi di Repubblica, giornale di cui è stato a lungo collaboratore, e di andarmi a leggere alcune sue interviste che si ritrovano in Maradona: «Non sarò mai un uomo comune». Il calcio al tempo di Diego, un libro che raccoglie articoli, reportage, incontri tra il giornalista e il campione (il libro è stato edito nel maggio scorso da minimum fax al costo di 16 euro).

Ho domandato a Minà che cosa gli avesse dato più fastidio delle cose dette o scritte dopo la morte di Maradona. Minà è lapidario: «Non ho letto né visto nulla, mi è morto un amico, e ho voluto ricordarlo con un articolo, perché questo so fare. Ho parlato solo con Signorini». Signorini è Fernando Signorini, l’uomo che curava la preparazione del fuoriclasse argentino, colui che sapeva come aiutare Diego ad attraversare i tunnel della sua vita, uno specialista non solo del fisico ma anche dell’anima.

Ho sempre avuto la sensazione, dico a Minà, che certi giudizi perentori e severi su Maradona, sarebbero stati diversi, più benevoli se “el Diez” non si fosse schierato. Contro gli Stati Uniti e a favore di Cuba, contro i padroni del pallone e a favore dei calciatori, contro i presidenti e a favore dei tifosi. Galeano scrisse di lui: «Grazie per i tuoi gol ai potenti…». «Semplicemente – ribatte il giornalista – i  nostri colleghi hanno visto che se si scriveva di lui, nel bene e nel male, l’articolo o il servizio destavano attenzione, avevano un seguito ed una audience smisurata».

Ma tu gli sei stato amico, non puoi che parlarne bene… «In realtà, anche se mi era amico, come dici tu, non ho mai fatto servizi o scritto articoli prezzolati su di lui. Maradona con me, semplicemente, si confidava, perché sapeva che non l’avrei sfruttato, né avrei travisato le sue parole come hanno fatto in molti. Nelle mie interviste lui ha parlato di droga, della disintossicazione a Cuba, del suo impegno politico. L’ho raccontato anche per come era fuori dal nostro paese. Di solito noi siamo abituati a vedere i fatti in maniera “italocentrica”, non ci vogliamo rendere conto che fuori (un “fuori” che non è fatto solo di confini concreti tra paese e paese) c’è tutto un mondo da raccontare, compresi i personaggi fuori dal comune. Lui faceva parte di questi ultimi».

Già, non è stato un uomo comune Diego come ti disse lui stesso e come hai titolato il tuo libro. Che cosa gli dicevi quando parlavate di Napoli, della camorra, della foto della conchiglia con i Giuliano? E lui come si difendeva? «I miei articoli su di lui li ho inseriti tutti nel mio libro. Lì trovi le risposte alle tue domande».

Giocò, vinse, pisciò, perse… Diego giocava meglio di chiunque altro, nonostante la cocaina e non grazie ad essa. Sono parole di Galeano. È stato davvero il più grande, è stato meglio ’e Pelé? «Si, Maradona è stato il più grande» è la replica di Minà.

Si possono accostare Alì e Diego? «Sì, avevano una visione della vita diversa, erano personaggi contro. E per questo erano interessanti nei loro ragionamenti. Non a caso venivano da un ceto sociale umile e dignitoso».

Hai visto il film di Sorrentino che esce nelle sale in questi giorni di fine novembre? «No, non ancora».

Ti fa schifo il calcio di oggi?, chiedo ancora a Minà. La risposta è eloquente: «Il calcio è finito, come è finita la boxe». E le tv che ne parlano? «Non vedo più le trasmissioni sportive, né le partite. Da tempo».

Di morte, Gianni e Diego, avevano parlato già nel giugno 2001 quando Minà fece a Maradona una delle tre interviste contenute nel suo libro. El Pibe era venuto in Europa per ritirare il premio della Fifa come miglior calciatore di tutti i tempi (un premio assegnato dai tifosi con un referendum, altrimenti, se fosse dipeso dai boss del calcio mondiale…). Scrisse Minà: «…mi ha accolto rilassato, sereno, come non lo vedevo ormai da tempo. Capita spesso con lui, ma ci troviamo subito a parlare di cose personali, e in particolare dei suoi affetti. Mi mostra due foto: in una c’è sua figlia Dalma, nell’altra una persona che non mi sarei mai aspettato di vedere nelle sue mani. “E’ un pretendente che ho visto girare in albergo: Leonardo DiCaprio. O meglio, mi piacerebbe che lo fosse, un pretendente. Anzi, piacerebbe a Dalma! A me non tanto, ma lei è pazza di DiCaprio, e un giorno gli ho fatto una foto. E per essere più preciso sono andato a parlare con lui per invitarlo al compleanno di mia figlia. Per lei, sai Gianni, senza vergogna, farei di tutto. E quindi sono andato a dirgli: “So che voi, quando fate queste cose, prendete un cachet. Questo è il tuo lavoro, lo rispetto, e guarda, io faccio tutto questo per mia figlia…”…. Insomma avrebbe potuto sbrigarsela in fretta e rispondermi: “Mi dispiace ma non posso venire al compleanno di tua figlia”. E invece mi ha detto: “Guarda, se non ho altri impegni volentieri. Tra l’altro, non conosco l’Argentina”. Sono rimasto a bocca aperta!… Una cosa a Leonardo… gliel’ho dovuta dire: “Guarda, sono arcistufo del Titanic! Non lo sopporto più!”. E lui mi ha dato ragione”».

Ma poi il dialogo tra i due, tra Minà e Maradona, divenne meno spensierato. Il giornalista volle sapere di una intervista nella quale il calciatore aveva rivelato di essere morto per cinquanta secondi in seguito a qualche grave crisi. Minà lasciò parlare Maradona: «Morto. E senza neppure accorgermene. Vedi, Gianni, io dico che la morte viene e non ti avvisa. Io mi sono sentito molto male, e quando mi sono ripreso c’era Claudia accanto a me, e mia mamma… Ma quando ho parlato con il dottor Torres, lui mi ha spiegato di avermi strappato alla morte, e che per cinquanta secondi lo sono stato, morto. Ed io gli ho risposto: “Mi sa che il Barba ancora non mi voleva!”». Il Barba per gli argentini è Dio. «Detto con tutto il rispetto eh, perché Gli voglio bene. È l’unico in cui credo, perché a chi mi sta vicino non credo. Sicuramente il Barba aveva paura che Gli combinassi un casino lassù: “Diego”, ha detto quindi, “continua a fare casino sulla terra”. Ma dico anche che mi sono salvato, o il Barba mi ha salvato, perché io non ho fatto male a nessuno. Al massimo, mi sono fatto male da solo, e la stavo pagando con la vita…».

Minà gli chiese perché avesse scelto Cuba per curarsi, per disintossicarsi, e non il Canada, gli Stati Uniti o la stessa Argentina. Lui rispose che l’Argentina era un paese corrotto, dove curarsi era un problema. «Io credo che in Argentina non ci siano dottori capaci. L’Argentina è diventata così corrotta che a un medico non conviene curare un tossicodipendente. Io sono andato dal migliore… Centocinquanta dollari per una visita! Che cosa devono fare un padre e una madre quando hanno un figlio tossicodipendente? Devono vendersi la casa? Allora io mi chiedo: ma perché non creano un sistema per curare questi ragazzi, invece di trattarli così?… Nel mio paese io ho fatto quello che potevo e non è servito a nulla, perché quelli che rubavano, quelli che dicevano che assumevo droghe – ed erano loro che me la vendevano – sono restati in alto. Ne cacciavano via uno ogni dieci o quindici anni, ma poi continua a governare sempre la stessa famiglia di corrotti, di ladri: e nessuno di loro vuole che i ragazzi siano recuperati».

Maradona parlò molto del periodo più buio del suo paese: la dittatura. L’intervista infatti così prosegue: «Pensa alle madri di Plaza de Mayo davanti alla Casa Rosada di Buenos Aires. Una delle immagini più angosciose del nostro tempo, per chi ha una vera coscienza democratica. È dal 30 aprile 1977, da quando una feroce dittatura ha sottratto loro e mai più restituito un figlio, un nipote, un fratello che queste donne si riuniscono ogni giovedì nella piazza dove c’è il palazzo presidenziale. Donne come Hebe de Bonafini vogliono sapere che fine hanno fatto i loro cari e perché questo atto, più crudele di un assassinio dichiarato, sia rimasto impunito anche con il ritorno alla democrazia». E a Minà che lo vedeva combattivo, quasi rinato e che gli chiese quanto gli fosse costato lasciare il calcio e tornare ad essere un uomo comune, Diego rispose così: «Non sarò mai un uomo comune! Vedi, mi è uscita la superbia da dentro. Non sarò mai un uomo comune. Io ho lasciato il calcio quando tutti volevano che io continuassi…».

Qualche anno dopo, era il 2005, Maradona tornò in Italia e vide di nuovo Minà. In quella occasione i due parlarono anche della droga che aveva rovinato la vita dell’argentino. Tutto ebbe inizio a Barcellona, pensava il giornalista. «In realtà – gli rispose Diego – avevo già cominciato al Boca Juniors, tanto tempo fa: avevo ventidue anni. Insomma, di tempo ne ho perso tanto, ma la dipendenza è una malattia. Se non avessi preso quello che prendevo, oggi sarei qui a parlare di qualcosa di diverso. Finché era un divertimento stavo bene, in fondo, perché non facevo male a nessuno. Quando è passato il divertimento e ha cominciato ad essere una dipendenza… a quel punto ho iniziato a far soffrire la gente alla quale volevo molto bene». Minà gli chiese se «dietro la sua dipendenza non ci sia stato anche il fatto che a Barcellona si sentiva escluso o trattato da sudaca (un dispregiativo che in Spagna viene riservato ai sudamericani). Se Napoli lo abbia aiutato o non abbia accentuato il disagio che si portava dietro dai tempi della militanza nel Boca. Ma Diego è inflessibile, prima di tutto con se stesso». Infatti il campione affermò in risposta senza esitazione: «Se c’è un colpevole di quello che mi è successo, quel colpevole sono io. E le situazioni me le sono risolte da solo a quindici anni, a trenta, a quarantaquattro. Continuo a decidere il bene e il male della mia vita. Da Napoli, per essere chiari, ho ricevuto solo ringraziamenti e in alcuni casi manifestazioni d’affetto. Tutto quello che ho fatto, l’ho fatto io. Napoli non mi ha spinto a niente». Ma Napoli ti ha anche oppresso, gli fece notare Minà: «…gli chiedo…se non abbia mai avuto la sensazione che quella parte della città che gli vendeva la droga potesse ricattarlo e togliergli la vita, la felicità…». Diego: «Io non sono mai andato a comprare droga. Me l’ha sempre comprata qualcun altro. E comunque ho sempre pensato che non stavo facendo del male a nessuno, semmai a me stesso, e che non ci sarebbe stata nessuna rappresaglia contro di me finché facevo il mio lavoro in campo. Sapevo perfettamente i problemi che aveva Napoli, ma ero uno che grazie a Dio, la domenica, faceva dimenticare tutto alla sua gente. E noi eravamo dei privilegiati per questo. Anche chi era cattivo ci rispettava, perché sennò a Napoli non rimaneva niente da sperare. Per loro, tu lo sai, Gianni, la domenica voleva dire uscire dalla sofferenza della settimana, dai problemi… E noi eravamo quelli che contribuivano alla sopravvivenza di una città».

Minà gli raccontò di uno scambio di battute avute con il presidente del Napoli, Corrado Ferlaino, su una barca a largo di Capri un anno prima che Maradona se ne andasse, erano i primi di aprile del 1991, quasi una fuga sotto l’accusa di doping, positivo alla cocaina, dopo una partita giocata dal Napoli con il Bari, provette trattate in modo perlomeno dubbio: «La partita contro l’Italia fu la mia sentenza» ha sempre detto Maradona, ricordando la semifinale mondiale al San Paolo nella quale l’Argentina eliminò l’Italia di Vicini ai calci di rigore. E neanche uno di quelli che avevano riempito lo stadio San Paolo sette anni prima per accoglierlo in delirio (…olè, olè olè…Diegoo, Diegoo…) e lui che si mise a palleggiare con i jeans e una maglietta, lo accompagnò all’aeroporto di Capodichino. Nessuno. Dunque, Minà chiese a Ferlaino di lasciare andare il fuoriclasse in ambienti più tranquilli: «“Lei conosce i problemi di Diego: perché non lo manda a giocare in Francia (lo voleva Bernard Tapie al Marsiglia ndr), dove prospera un gioco meno isterico?”. E lui mi rispose: “Io la capisco, ma per me Maradona è un investimento”. Fui costretto a ribattere: “Prima di tutto è un uomo, poi un investimento”. Ma in quell’istante compresi la logica con la quale Maradona era stato amministrato. Era una cassaforte, e tutti avevano volutamente dimenticato che dietro quella cassaforte c’era un uomo».

Un uomo debole, un calciatore divino che ha regalato gioia e ha inorgoglito un popolo, una città, Napoli, non era l’uomo-squadra, diceva Gianni Mura, era l’uomo-città, finito in balia degli altri che lo hanno spremuto in tutti i modi, presidenti di calcio e familiari, el entorno de Maradona, il clan, la corte di parenti, medici, procuratori, faccendieri, addetti stampa che lo ha circondato fino alla morte. Dieguito, il Pelusa che era rimasto a tratti come quel bambino che sognava soltanto di giocare a pallone. «A me giocare a pallone dava… una pace unica» ha dettato nella sua autobiografia Io sono El Diego. «Il primo pallone che ho avuto è stato il regalo più bello ricevuto in tutta la mia vita… Era un numero uno di cuoio; io avevo tre anni e dormii tutta la notte abbracciandolo».

Basta pensieri tristi, basta piangerlo. Piantatela di giudicarlo con sentenze puritane. Maradona è stato tutto: quello che andava alle feste della camorra, il grassone, il gordito con un cuore malato (l’ultima dall’Argentina dice che l’hanno sepolto senza il cuore per studiare meglio le cause della sua morte: mah…), uno che ha seminato figli ed ha molestato donne, un uomo morto e resuscitato tante volte, un tossico. È stato tutto questo ed ha pagato i suoi peccati. Smettetela con questa pietà posticcia, falsa e ipocrita. Adesso è venuto il momento di lasciarlo in pace e di farlo dormire abbracciato ad un pallone. Così continuerà a fregare gli inglesi, a fottere un portiere con magiche scie del pallone, a fare pallonetti come linguacce.

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