Alessandro Macchi
Viaggio nell'immediato passato

Prima del Venezuela

Viaggio a Caracas nel 1977 per progettare una diga: fin da allora, le meraviglie della natura non nascondevano fino in fondo tutte le contraddizioni che sono esplose dopo. Prima con Chavez e infine con la feroce, inconsulta dittatura di Maduro

Mercoledì prossimo, 6 ottobre, presso il Gran Caffè Gambrinus di Napoli, alle 18.30, la giornalista Elena Scarici presenterà con l’autore il libro Le lacrime del sole di Alessandro Macchi: una bella raccolta di reportage nel mondo e nel tempo. Per l’occasione, pubblichiamo un inedito diario di viaggio del medesimo autore.


Leggere della sconvolgente situazione del Venezuela di oggi e confrontarla con le impressioni riportate dal mio viaggio del 1977, quando il Paese sembrava destinato a un grande e positivo sviluppo, mi lascia esterrefatto e profondamente colpito. Penso con rammarico ai circa sei milioni di venezuelani, il 20 per cento della popolazione, che hanno dovuto lasciare il paese, ai molti italiani che avevano contribuito con il loro lavoro al boom economico di quegli anni e che ora sono costretti a chiedere protezione al nostro governo.

La crisi dell’industria petrolifera, che costituiva un grande volano alla economia, la debolezza della macchina dello stato, le divisioni nello chavismo, l’iperinflazione, anni consecutivi di grave contrazione economica, una grave carenza dei servizi di base hanno portato il paese all’orlo della rovina. Ma il fattore più rilevante, che ha aggravato la drammatica situazione del Venezuela, è stato l’avvento, in seguito alla morte del presidente Hugo Chavez, della dura, feroce, inconsulta dittatura di Maduro, fondata sulla corruzione e la repressione.

Nel 2017 avevo seguito con intimo disagio e stupore le vicende sfociate nel la grande manifestazione “La madre di tutte le proteste”, e successivamente, il tentativo poi fallito, di Juan Guidò autoproclamatosi Presidente.

Certo, molti aspetti del boom economico degli anni del mio viaggio mi avevano lasciato perplesso e già da allora mi ero posto domande inquietanti sulle conseguenze e sulle contropartite di quel disordinato e spesso sconsiderato assalto alle risorse, ma lo slancio di quei tempi e la bellezza dell’opera, una notevole diga, per la quale era stata richiesta la mia consulenza, avevano avuto il sopravvento. Ora penso con tristezza a ciò che avrebbe potuto essere e non è stato, alle speranze mal riposte in una classe dirigente e in costruttori dotati di indubbie capacità imprenditoriali ma lanciati in speculazioni sfrenate nell’ignoranza del rispetto dei costi per l’ambiente naturale e umano.

Caracas. Nel 1977 in Venezuela, a Caracas, si trattava di condurre a termine i progetti e i contratti per la costruzione di una interessante diga. Ci aspettava il nostro partner locale, un ingegnere italo venezuelano, nostro socio.

Mi sarei intrattenuto in Venezuela un mese tra giugno e luglio.

Il volo diretto da Roma era stato ottimo: viaggiavamo su un DC 10 Alitalia per Caracas. C’era stato uno sciopero e l’aereo nuovo con la potenzialità di 399 passeggeri era occupato da neanche cento persone. Mi piaceva quel velivolo spazioso dall’ ampia carlinga e con strani motori turbo ventola, due alle ali di fianco alla carlinga, uno alla base dei piani di coda.

Il mio cognome evoca importanti costruttori di aerei (peraltro lontani parenti) e mi avevano chiamato nella cabina di pilotaggio: avevo mangiato e brindato coi piloti e le hostess e visto l’oceano, poi, scendendo al tramonto, l’isola La Margarita scoperta da Cristoforo Colombo e famosa per le sue perle.

Atterrammo all’aeroporto Maiquetia Simon Bolivar accolti dai nostri partner e raggiungemmo Caracas attraverso un parco nazionale dall’aspetto tropicale. Dopo 15 km eccoci in Città. La mia camera era ai piani alti di un moderno albergo e subito mi affacciai sul panorama.

Guardai con un certo stupore quel luogo nuovo e la novità, come sempre, sembrò offrire una boccata di ossigeno fresco alla mente. Mi diranno che Caracas si trova a circa 1000 metri di altitudine interamente all’interno di una valle del sistema della Cordigliera che costeggia il Venezuela con clima subtropicale montagnoso, e pensai alla valle che avremmo dovuto sbarrare con la nuova diga. Vedevo torri e piante nei parchi e strade in una urbanistica disordinata ma pulsante, evidente frutto di un rapido e forte accrescimento; si vedevano molte gru e si sentivano rumori di cantieri

Dall’ampio terrazzo dell’hotel guardavo i rilievi montuosi tutto intorno. Vedevo la città che trasmetteva un senso di recente opulenza, e a fronte vedevo l’enorme distesa dei “ranchos”: le bidonville abbarbicate sui colli, i “cerros”, sorprendente corona che sovrasta miseria e squallore.

Il nostro partner, residente in quel paese dagli anni ‘50, era un bell’uomo dall’aria tosta, non alto ma ben piantato, castano di capelli e di occhi, gran tifoso del Toro. Aveva una bella villa con parco nella parte alta della città e lì c’era anche il suo ufficio dove ci radunavamo per esaminare i progetti dell’opera.

Nell’ampio giardino osservavo le piante di mango con frutti enormi. E mi sorprendevo a confrontarli con i frutti più gustosi ma ben più piccoli degli altopiani etiopici di mie precedenti esperienze. Le piante di Euphorbia pulcherrima, quella delle stelle di Natale, comparivano lussureggianti, quasi di alto fusto, e i fiori enormi.

In varie occasioni ci trovammo a camminare in città, specie nel complesso Centro Simon Bolivar con le Torri del silenzio, le piazze Diego Ibarra, Plaza Caracas e plaza O’leary e l’inizio della avenida Bolivar. Mi ero stupito nel vedere in uno dei giardini tutta una seria, una ventina addirittura, di busti di Evita Peron. A Caracas mangiavamo di gusto i churrasco alla brasiliana e bevevamo abbondante buona Cerveza né mancavamo di gustare i cibi locali come il piatto nazionale venezuelano di carne, fagioli neri e riso con la novità per noi di foglie di platano fritte cosicché il nome del piatto, Pabellon, diventava Pabellon con ringhiera. Spesso però consumavamo un lunch di lavoro con i panini Arepa che è il nome del pane. A me piacevano anche molto le crêpes, le Cachapa: quelle che preferivamo erano fatte di mais fresco, acqua e zucchero tra loro impastati, poi ripiegati a contenere nel mezzo un formaggio bianco della consistenza di una mozzarella.

Ma lo studio della diga era piuttosto impegnativo e per ore nella suite dell’albergo aprivo i disegni e studiavo la mia diga.

La bella villa delle riunioni. Le riunioni spesso si protraevano fino a tardi nella villa ed eravamo invitati a pranzo o a cena nella lussuosa casa del nostro ospite. Lui spesso magnificava il suo successo e, nel raccontarci che aveva acquistato un grande villa nobiliare in Toscana, si capiva che si pensava erede e partecipe delle casate principesche che l’avevano fondata.

Ma la cosa più piacevole di quella ricca mensa era la moglie, la terza del focoso ingegnere. Aveva sui trentacinque anni, era alta, bionda con un bel sorriso un po’ impertinente, forme giuste e ben tornite. Tutti noi l’ammiravamo e la chiamavamo “la Bella”. A tavola sedevo vicino a lei che parlava un delizioso linguaggio italo-spagnolo e i discorsi cadevano spesso sulla vivibilità di Caracas, ma anche sul suo timore di essere “ripassata” da un nero dei ranchitos.

Nell’ampio giardino, ben curato e dotato di un’alta recinzione, c’erano cinque servitori e quattro cani molto belli: “la Bella” mi ci accompagnava volentieri illustrandomi piante e fiori e mi parlava delle montagne, i favolosi Tepuyes, acrocori o torrioni immensi dalla cima piana.

Percorrevamo spesso, anche per evitare il traffico caotico, la strada denominata “Quota mille” dal grandioso panorama. Da aeroporti privati spuntavano code di aerei con i piani di coda come pinne di squali pronti ad assalire i luoghi.

Ogni volta tornavo a stupirmi nel vedere tutta la città dall’aspetto opulente e attorno sui rilievi la corona dei cerros, su cui si arrampicavano a grappoli i barrios, le falvelas, una vera e propria seconda città di casette di blocchi di cemento e lamiere e l’occhio passava di continuo alle torri, ai parchi e alle fontane, e mi chiedevo: potranno mai, quei miseri, frequentare le belle chiese coloniali, o anche il palazzo Municipale, anche lui coloniale, o entrare nella chiesa barocca di San Francisco dove Bolivar è stato insignito del titolo di Libertador? O andare all’Universidad Central de Venezuela e nella biblioteca nazionale nel bel palazzetto delle Accademie, ex convento?

L’economia esplosiva. Scendendo nella strada a tornanti, che per ripidi 15 km porta sulla riva del mare caraibico, il “nostro” ci aveva portato a vedere l’“urbanizadora”, dove aveva degli interessi. Era un nuovo grande quartiere che stava sorgendo in riva al mare in vista di La Margarita, l’isola delle perle. Incontrammo diverse persone tutte indaffaratissime in “negocios”; l’italiano era la lingua che si sentiva parlare di più.

La magnifica foresta pluviale, ricca di piante di tutte le specie, alberi di cocco, palme e vegetazione tropicale, abitata da molti animali, veniva distrutta per far posto ad enormi edifici. Sembrava il sacco di alcune nostre periferie nel dopoguerra, ma moltiplicato per dieci, cento volte. La schiera di palazzoni avanzava ordinatamente in un esercito compatto preceduto da pale e ruspe e seguito da una selva di gru, quasi sostituto delle grandi piante abbattute, sradicate.

Il “nostro” magnificava la ricca urbanizzazione a cui partecipava e voleva dimostrarci l’importanza delle sue iniziative imprenditoriali da ampliarsi in opere civili come la diga a cui dovevo dare il mio apporto. Io tacevo.

A sera parlammo a lungo del Venezuela e dell’Italia. I suoi uomini d’impresa erano quasi tutti italiani del Sud, arrivati nel secondo dopoguerra soprattutto tra la fine anni ’40 e poco oltre gli anni ‘60. Ben più di 285 mila erano approdati nel paese sudamericano.

In quegli anni c’era stato infatti uno sviluppo esplosivo della economia petrolifera e mineraria e gli italiani avevano trovato lavoro non solo nella piccola e media industria manifatturiera, ma anche nelle grandi imprese italiane che stavano realizzando complessi siderurgici e petroliferi, e operavano anche, e, soprattutto, nel settore delle costruzioni civili.

A Caracas fra il 1950 e il 1960 la città era passata da 700 mila a 1,4 milioni di abitanti e la maggioranza degli edifici era opera di imprese italiane.

La diga in un paesaggio gentile. Venne il giorno del sopralluogo alla diga. Partimmo in quattro Jeep. Attraversammo con tre ore di macchina luoghi che sembravano un parco ricco di una vegetazione che diveniva via via più rada avvicinandoci alla valle della diga dove gli alberi comparivano più schietti, grandi e bellissimi. Il sito prescelto per la costruzione non era una valle di tipo alpino ma una serie di colli che si elevavano in creste a formare una catena continua interrotta solo da una valle. Sbarrando quel passo dalle pareti ripide e schiette, si poteva ottenere, con un’opera piuttosto modesta, un invaso interessante e il lavoro si presentava molto favorevole nella sua linearità quasi fosse un grande modello da studio.

L’associazione pareva, almeno dal punto di vista tecnico, basarsi su fattori positivi e si discusse come coinvolgere ditte italiane.

Tornammo impolverati e stanchi. Era già buio e ci buttammo nella grande piscina di acqua tiepida. Dopo, ci accolse una sauna in un bel locale. Ad un tratto entrò la “Bella” porgendoci un aperitivo, gentilissima e sorridente: dal gonnellino cortissimo uscivano due gambe perfette. Mi vergognai della mia nudità che cercai di coprire con l’asciugamano e lei si sedette di fronte … un attimo, e vidi il tanga rosso.

Il sopralluogo era stato importante e noi tre progettisti con i disegni aggiornati tornammo nella valle gentile per approfondimenti.

In quell’aria primaverile andammo per campi e vallette laterali apportatrici di acqua, ispezionammo i siti del corpo diga e delle gallerie di derivazione, quelli dove ubicare il manufatto di sfioro fatto come una grande tromba proprio al centro del futuro lago.

Mi piaceva quella diga: il corpo dello sbarramento, del volume di 1 500.000 metri cubi, era previsto in terra con altezza massima di 40 metri e lunghezza al coronamento di 300 metri. L’invaso sarebbe stato dotato di due sfioratori che dovevano sorgere nel lago per convogliare l’acqua in una galleria del diametro di otto metri e lunghezza totale di circa 600 metri. Altre gallerie lunghe poche centinaia di metri erano da costruire per lo scarico di fondo; infine, per completare le funzioni della diga, erano in progetto canali di derivazione e condotte forzate. Seduto su un sasso, all’ombra, gustando un esotico panino preparatomi dalla “Bella”, passavo mentalmente dai disegni all’opera e vedevo sorgere davanti ai miei occhi la tromba del manufatto di sfioro, bella, bellissima, e ripassavo la lunga leggendaria storia delle dighe… Le dighe… si ergono nella natura dei luoghi come monumenti e simboli di progetti grandi per l’energia rinnovabile dataci dall’acqua dei torrenti e dei fiumi, e concessa dalla conformazione di valli e gole. Costruiamo dighe e acquedotti per condurre le sue forze a compiere un lavoro: è il compito della scienza di noi tecnici.

Se, ultimata, può anche sembrare semplice l’interno della diga è frutto di un duro travaglio progettuale e realizzativo che deve dare vita al labirinto degli elementi funzionali: i corpi immensi degli sbarramenti, i taglioni di tenuta, i cunicoli di controllo e monitoraggio, le reti di convogliamento, vuoi per le condotte forzate che scendono precipiti nelle valli dove le centrali per l’utilizzo sono spesso costruite in grandi caverne, vuoi per le canalizzazioni delle acque ormai mansuete negli acquedotti.

  Gli acquedotti corrono a volte in percorsi lunghi con opere complesse, scavi profondi, gallerie, ponti, in varietà di situazioni che fin dall’antichità li hanno resi famosi e talvolta leggendari. Ero orgoglioso di partecipare alla nascita della nuova bella diga.

Il successo e la festa. I nostri studi e contratti ebbero successo e il nostro partner volle festeggiare l’evento in un night club, locale che io aborro. Dopo lo spettacolo, ormai a notte inoltrata, aveva deciso, piuttosto brillo di champagne, di aspettare le spogliarelliste all’uscita; altre macchine presuntuose e altri signori alticci erano in attesa. Ed eccole, stanchissime, il trucco disfatto, i piedi infilati in ciabatte più che in scarpe, incredibilmente rimpiccolite. Avevano consumato corpo e viso in falsi sorrisi con profusione di energie fisiche e psichiche e apparivano esauste, timide. Il “nostro” cercò un approccio e la polizia, stazionante lì davanti, lo prese in mezzo e lui tirò fuori un biglietto dai caratteri dorati in rilievo, firmato dal presidente Carlos Perez. Ma a poco valse e dovemmo far noi, italiani veraci, da intermediari per riportarlo a casa. Mi vergognai moltissimo e ancora adesso a ripensarci, rivivo il disagio di allora.

Il nido della “Bella” sulla Meseta. Il giovedì dell’ultima settimana nel tardo pomeriggio ricevetti una telefonata. Era la “Bella”.

Disse in un italiano misto a parole spagnole e con voce deliziosa e complice: “Alejandro, che ne dici di un week end assieme? conosco sul torrione “El Auyantepuy” un rifugio vicino al fiume che poi precipita nell’altissimo “salto Angel” giù all’Orinoco, un nido, bellissimo, unico. Passeremo due giornate fantastiche tu ed io a più di 2000 metri sulla “meseta”. Io vengo con la mia “avioneta” e col mio “piloto”, tu noleggi una “avioneta” con “piloto” e ci vediamo lassù: ci sentiamo domani prima di mezzogiorno”.

Rimasi come imbambolato, lusingato ma perplesso. Un’avventura così mi pareva superare la mia capacità di essere disinvolto e la bellezza di quella donna dal sorriso sornione mi intimidiva e temetti addirittura per la mia virilità in una circostanza così eclatante.

Mi arrovellai tutta la notte e, con il magone, alla fine mi tolsi dalla mente il nido sulla “meseta” del “Tepuy” col contorno di “piloto” e “avioneta”.

Il pozo de la felicidad. Solitario, partii per Canaima per il weekend in un resort su un impetuoso fiume affluente del Rio Caronì a sua volta affluente dell’Orinoco.

Il turboelica si abbassò per farci ammirare le cascate dell’Angel che si confondevano in nebbia alla fine del grande salto di quasi 1000 metri, le più alte del mondo.

Dalla laguna di Canaima a bordo di una barca pilotata da un tedesco dalla faccia dura ed equivoca andai per cascate stupefacenti di ricchezza d’acqua color cognac. A lato del fiume la più profonda Foresta Amazzonica compariva in tutta la sua meraviglia, ricca, mi dicevano, di specie botaniche uniche. Ammiravo quella schiera compatta di alberi alti qualche decina di metri, una “società” vegetale organizzata ed auto protetta: alcuni individui che osavano alzarsi più in alto comparivano inesorabilmente secchi.

Giunsi ai salti del fiume che definivano flussi di acque che cadono ricche e impetuose in rapide vertiginose e in cascate. Risalendo il rio, passando di barca in barca, ecco il salto El Sapo y El Sapito, il salto del Yuri, le Rápidos de Mayupa dove, su un roccione vicino alla cascata d’acqua, mi stesi in costume, appena lambito da una corrente dolce e tiepida al rombo dell’imminente salto.

Erano i luoghi del romanzo Un mondo perduto di Conan Doyle che mi aveva appassionato nella mia gioventù e pensavo che il protagonista aveva scoperto da quelle parti un lago che aveva chiamato col nome della sua “Bella”, Gladys, nome cancellato al suo ritorno a Londra dopo l’abbandono di lei.

Poi, al Pozo de la Felicidad, una grotta da cui scende una cascata con laghetto giù al fondo dove si tuffano gli innamorati, guardai di fronte la mole del Tepuy e pensai alla “Bella”, perplesso e vagamente scontento: sarà forse lassù irridente? pensavo e avanzai per tuffarmi nel “pozo” in cerca della Felicidad, e diedi una feroce testata in uno spuntone di roccia e mi trovai seduto sulla dura pietra a riflettere con la testa tra le mani…

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