Sergio Buttiglieri
Al Teatro Storchi di Modena e poi in tournée

L’Italia di Moro

Fabrizio Gifuni porta in scena le lettere e il terribile memoriale di Aldo Moro. Un monologo intenso grazie al quale il lettore scopre l'intreccio di interessi e falsità che portò - di fatto - alla condanna del grande statista ucciso dalle Brigate Rosse

Con il vostro irridente silenzio, l’intenso, travolgente monologo di Fabrizio Gifuni, che ha appena debuttato in prima nazionale con grande successo al Teatro Storchi di Modena, si fonda sulla sua capacità di mettere in dubbio concetti comuni che il mainstream cercasempre di inculcarci come quello che: «la memoria è divisiva». Fin dal prologo allo spettacolo basato sullo studio delle lettere dalla prigionia e sul memoriale di Aldo Moro, Gifuni ci racconta che lui ha una grandissima fiducia nei testi.

E affrontando la lettura delle ultime lettere di Aldo Moro, assieme ai suoi fondamentali memoriali (che solo negli anni Novanta vennero ritrovati in un’intercapedine dai nuovi proprietari del covo dove Moro venne rinchiuso) Gifuni ci immerge in una lingua chiara, cristallina, profonda, in contrasto con l’opinione comune in quegli anni che Moro fosse fumoso, e poco chiaro.

«Ci sono alcuni fantasmi che chiedono di essere ascoltati»ci ricordava giustamente Pirandello.

E il suo monologo – recitato in uno scarno palcoscenico nudo, con solo disseminati a terra alcuni fogli bianchi e con un fondale azzurro sempre più intenso – alterna le lettere alla moglie e ai figli a quelle ai politici come Cossiga, Zaccagnini, Taviani, Andreotti, Fanfani, durante i suoi terribili 55 giorni di prigionia, dal 16 marzo al 9 maggio 1978. Tutto un insieme di ipocrite ragioni di stato in cui Moro rende palese come la strategia di quei giorni fosse nell’inculcare nell’opinione pubblica, come unica soluzione, «il sacrificio dell’innocente».

Nel memoriale Moro smaschera i suoi amici-colleghi democristiani dell’epoca tutti intenti a smentire le sue lettere. Ad affermare che non era lui a scriverle.

Solo Saragat e alcuni socialisti ebbero un minimo di attenzione nei suoi confronti. Persino i comunisti dell’epoca furono durissimi nei suoi confronti. Tutta la stampa fu ferrea nel raccontare Moro come agnello sacrificale da non poter salvare. Una compatta regia mediatica tesa ad arginare, silenziare, mistificare, irridere, questo fiume di parole inarrestabili, troppo scomode per essere, secondo loro, di Aldo Moro.

E se da un lato Moro, nel memoriale, racconta lucidamente come i finanziamenti alla DC arrivavano dalla Confindustria e dalla Cia in cambio del mantenimento di una certa politica basata sul do ut des (politica, fra l’altro, già raccontata efficacemente da Totò nel mitico film del 1963 Gli onorevoli) dall’altro parla di Sindona e Andreotti, tutti bravi a orchestrare l’epilogo della sua prigionia. 

Questo massiccio cinismo nei suoi confronti fu aspramente denunciato da lui a Zaccagnini dopo i suoi primi 40 giorni di prigionia. Andreotti, ricorda Moro, fu indifferente e «come sempre, ha fatto il male nella sua vita». E «neppure Berlinguer, sostenne la possibilità di una mia liberazione». Persino «il Papa ha fatto pochino» denuncia Moro nei suoi scritti tenuti nascosti per troppo tempo.

Gifuni è bravissimo, come sempre, nel resto, nei monologhi che negli anni ha messo in scena, a cominciare da quell’indimenticabile ‘na specie de cadavere lunghissimo del 2004, con la regia di Giuseppe Bertolucci, per non parlare del suo pluripremiato Gadda Pasolini, antibiografia di una nazione. Qui, con una rara capacità interpretativa, ha tenuto incollato il pubblico sulle sedie per quasi due ore di questo travolgente monologo che ha raccolto oltre 10 minuti di calorosissimi applausi finali. Spettacolo di grande rara potenza che sicuramente vedremo in tournee in varie città d’Italia nel 2022.

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