Martino Giordano
A proposito de "Le transizioni"

Le identità fluide

Il romanzo di Pajtim Statovci, scrittore del Kossovo, gioca (drammaticamente) con le identità: «Sono un uomo che non può essere una donna, ma che volendo potrebbe sembrarlo, ed è il meglio che so fare, giocare a travestirmi, e decido io quando iniziare e quando smettere»

Sabato 16 ottobre a Torino, nella sede della Scuola Holden, il giornalista Fabio Deotto ha intervistato lo scrittore Pajtim Statovci, che all’età di trent’anni si è conquistato un posto di rilievo nella letteratura internazionale. L’incontro si è svolto nel General Store della scuola di scrittura, e si è incentrato sulla presentazione dei romanzi Gli invisibili e Le transizioni. Durante l’intervista, lo scrittore si è soffermato su quello che è il tema principale delle sue opere: la ricerca dell’identità in un tempo in cui il concetto stesso di identità si fa contenitore di nuovi significati. Su realtà fluide Statovci si sofferma particolarmente ne Le transizioni, opera di cui intendo ragionare in questa sede.

«Mi guardo attorno per un attimo e immagino che non dovrò aspettare a lungo, ma ci vuole qualche minuto perché le mie orecchie percepiscano il ronzio di una macchina sufficientemente grande. E allora mi lancio». Per rinascere bisogna morire, o almeno tentare di farlo: si conclude così il primo capitolo de Le transizioni, secondo romanzo dell’autore di origine kossovara, scritto nel 2016 all’età di 26 anni e pubblicato in finlandese con il titolo Il cuore di Tirana. Il romanzo ha vinto nello stesso anno il Toisinkoinen Literature Prize, mentre nel 2018 gli è stato assegnato L’Helsinki Writer of the Year Award. È stato pubblicato per la prima volta in Italia nel 2020 da Sellerio Editore, ricalcando il titolo in inglese: Crossing.

Scritto in una prima persona asciutta e tagliente, narra la storia di Bujar, giovane ragazzo di famiglia povera, e del suo viaggio da Tirana, descritta come «la prigione a cielo aperto più grande d’Europa», fino all’Italia e poi in Finlandia.

È un viaggio da clandestini quello che Bujar affronta attraverso l’Adriatico con il migliore amico Agim: un percorso di fame e polvere, che mostra la feroce speranza di una gioventù disposta a fare di tutto pur di scappare dalla realtà distruttiva del proprio paese.

Insieme al luogo di nascita, Bujar abbandona la sua identità: gli basta aprire la bocca e presentarsi di volta in volta con un nome diverso, imparando così a plasmarsi a piacimento per reinventare se stesso e la propria storia. Costruirsi ogni giorno in una forma nuova e poi soffiare su quell’identità come su un mucchio di cenere, e da lì rinascere ancora: che il sottofondo che giunge al lettore sia quello del ticchettio di un paio di tacchi a spillo o lo schiocco sicuro del passo di un uomo, non ha importanza. «Sono un uomo che non può essere una donna, ma che volendo potrebbe sembrarlo, ed è il meglio che so fare, giocare a travestirmi, e decido io quando iniziare e quando smettere». Quella di Bujar – e insieme di Anton, di una giovane di Sarajevo corteggiata da uomini di ogni età, o della persona che ogni volta sceglie di essere – è una voce che, pur cambiando, rimane inconfondibile.

Si potrebbe obiettare che il protagonista si serva di identità effimere con la stessa disinvoltura con cui ci si cambia d’abito, in accordo con l’ottica consumistica che contraddistingue il nostro secolo; ma a tal proposito è doveroso sottolineare che, sebbene Bujar sia di volta in volta una persona diversa, la sua individualità profonda si manifesta in ciò che egli stesso nega di essere.

Le metamorfosi del protagonista non sono soltanto frutto di un impulso dionisiaco, di una pura esuberanza polimorfica: in esse si cela il desiderio di fuggire dall’appartenenza etnica e, di conseguenza, dal passato. Bujar è quindi più un fuggiasco che uno spirito libero, e la sua identità di albanese è tanto più presente, quanto più impossibile per lui da accettare. Soltanto nella negazione di sé e nella vergogna di ciò che è stato emerge, più che in ogni affermazione, la sua autenticità.

«Potrei chiamarmi Anton o Adam o Gideon, il nome che di volta in volta mi suona meglio, e sono francese o tedesco o greco, ma albanese mai».

È inoltre costante il binomio che oppone la speranza di un futuro migliore alla disillusione della condizione presente. «Quando arrivai in Italia ero certo che avrei trovato un lavoro gratificante, che avrei incontrato una persona che mi avrebbe amato […] ero sicuro che qualcuno mi avrebbe scoperto, notando il potenziale che avevo in me. […] Col passare del tempo ho notato che non mi sentivo più speciale, e credo che sia la cosa peggiore che ti possa capitare». Così la storia personale si trasforma nell’insoddisfazione universale di chi si accorge dell’inconsistenza dei propri desideri.

È un cielo di cartapesta quello sotto il quale si muovono i personaggi, che sia il cielo di Tirana, di Roma o di Helsinki. E se il sogno non è altro che un pugno di sabbia pronto a scivolare via dal palmo, allora non rimane che cambiare direzione, o non avere più direzioni, e muoversi in una realtà più fluida.

Nel turbine del cambiamento è coinvolto in prima persona l’autore, nato in Kosovo nel 1990 e cresciuto in Finlandia, dove si è trasferito con la famiglia all’età di due anni per sfuggire alla guerra. Pajtim Statovci è la voce di chi si muove tra due mondi: c’è chi si riferisce a lui come a uno scrittore serbo-croato, chi preferisce riconoscerlo come uno scrittore finlandese. Lo stesso autore, come ha affermato nell’intervista, ha però rinunciato a un’unica definizione che possa escludere una delle due parti.

Statovci descrive una realtà nuova, in cui definire se stessi in una sola parola non è né importante né tantomeno possibile. Nella realtà kafkiana narrata dall’autore, si è in grado di riconoscere un ritratto più che fedele di quello stesso mondo magmatico, frammentato e in nessun modo statico, in cui la contemporaneità si trova immersa.

Sebbene il romanzo rappresenti uno dei capisaldi della letteratura Queer, non bisogna tuttavia pensare che Le transizioni sia una lettura destinata a una minoranza. Sarebbe meglio considerare l’opera sia come uno strumento adatto a comprendere meglio quelle realtà individuali che sono invisibili a occhio nudo, sia come una lente che svela a ogni essere umano la mutevolezza del proprio essere.

Quello di Statovci è un romanzo che va oltre ogni stereotipo e costruzione sociale; la sua è una delle poche voci realmente autentiche del nostro secolo che si abbia il privilegio di conoscere.

Facebooktwitterlinkedin