Beatrice Masini
Ceppo Ragazzi Lecture 2021

Se il male è bene

“I libri che fanno male” è il titolo della conferenza che Beatrice Masini, vincitrice del Premio Ceppo per l’Infanzia e l’Adolescenza che si tiene oggi e domani a Pistoia, ha dedicato a questa 65° edizione. Un’esperienza necessaria perché certe letture, «filando il dolore… e trasformandolo in qualcos’altro», fanno crescere

Oggi e domani 29-30 settembre a Pistoia, Beatrice Masini riceve il Premio Ceppo per l’Infanzia e l’Adolescenza 2021, a cura di Paolo Fabrizio Iacuzzi. La scrittrice premierà anche 30 studenti delle scuole secondarie di primo e secondo grado che hanno scritto recensioni animate sui suoi libri e sui classici da lei consigliati. Ai ragazzi, ai loro insegnanti e genitori è dedicata la “Ceppo Ragazzi Lecture”, I libri che fanno male, pubblicata dalla rivista LIBER (n. 131), che prende spunto da cinque parole chiave: viaggio, natura, identità, amore, libertà. Ecco un estratto dei “libri che fanno male” ma che sono necessari a crescere.

Che cos’hanno in comune Cime tempestose e Il giardino segreto, Rumer Godden e Josephine Johnson, La perla e Winnie Puh, Thoreau e Peter Pan? Nulla e tutto. A tenerli insieme è il fatto che abitano uno stesso scaffale ideale e sono attraversati dagli stessi temi: la natura quando è madre e quando è strega, alberi e fiori, giardini, cielo, acqua, fantasmi, eternità. Sono i personaggi, gli autori, i libri da rileggere: lo scaffale ideale è quello che non sta né troppo in alto né troppo in basso, è quello occupato dalle storie care, le storie che si consigliano alle persone che si amano, le storie di cui si parla sempre, a cui si torna sempre. Sono personaggi, autori, libri finiti lì in tempi diversi, per ragioni diverse: è bello vedere come si parlano, e quello che si dicono, e qual è il filo che li lega.

Le parole-chiave di questa “Ceppo Ragazzi Lecture” sono viaggio, natura, identità, amore, libertà. Attraversano i libri che scrivo, come i libri che amo. Alcuni di questi libri fanno male. Pungono, tagliano, tormentano. Sono intrisi di dolore. Altri sono più pacati, più sommessi: il dolore c’è sempre, è materia viva, ma viene trasformato, muta forma, e scintilla, come la paglia filata in oro delle fiabe. A pensarci bene sono queste le due famiglie di libri che ancora e sempre mi interessano, i libri dello scaffale più caro e più vicino. Sono i libri che fanno male e quelli che filano il dolore, che lo trasformano in qualcos’altro. Non è vero. Anche i libri che filano il dolore fanno male. È un male sottile, che fa piano, però è male lo stesso.

Non ricordo se nell’estate dei miei tredici anni qualcuno mi ha suggerito di leggere Cime tempestose di Emily Brontë. Non credo. Ho avuto la fortuna di crescere in una casa con tanti libri: sia la mamma che il papà leggevano molto, c’erano file di Meduse verdi dedicate da lui a lei, da lei a lui, e poi i vecchi Bompiani con le sovraccoperte arricciate che dicevano scambi e riletture, la prima edizione del Gattopardo gialla e bruna e per nulla attraente, i BUR grigini che avevano per me la sola virtù di essere piccoli, e poi i finalisti dei premi Strega e Campiello; ma le sorelle Brontë sugli scaffali della libreria non c’erano, così come Jane Austen, che avrei incontrato ancora più tardi, un po’ con rammarico – peccato non averla conosciuta prima – un po’ con gioia – leggerla tutta di fila, che privilegio. 

Cime tempestose, in una tempestosa ma fragile edizione Oscar che si squadernò tutta, dev’essere stata una delle mie incaute scelte, incaute e libere, delle vacanze al mare: ci avrò speso la mancia dello zio scapolo che piombava nelle nostre vite senza preavviso, di solito verso sera, dopo un viaggio piuttosto lungo nella sua auto foderata di giornali e riviste, ci trascinava tutti fuori a mangiare gelati fastosi e prima di andarsene all’alba del giorno dopo copriva di giocattoli mio fratello piccolo, il suo diletto, dovendo poi compensare in qualche modo – ed era sempre un modo generoso – quella comprensibile ma dolorosa iniquità nei miei confronti. Con il mio soldo di carta ben ripiegato nella tasca dei bermuda andavo all’edicola, anzi, dietro, e passavo parecchio tempo a studiare le copertine, a stilare personali inconsulte classifiche di bellezza dei titoli. Qualche autore lo riconoscevo, erano gli stessi che abitavano gli scaffali di casa; ma molti erano ignoti, meglio così. Alla fine agivo. Emily viene da lì. Una storia d’amore impossibile, dunque eterno; i fantasmi; una bambina bella e viziata che diventa una giovane donna bella e viziata (“sei viziata” era un rimprovero da evitare, essendo bambini in quei tempi ancora così sobri), e un eroe scuro come un Lascar (non sapevo che cosa volesse dire, ma non era importante, anzi, meglio non capire proprio tutto), vendicativo e vampiresco. 

Era un libro cattivo, avevo bisogno di libri cattivi. Catherine aveva gli occhi scuri degli Earnshaw, non quelli dei Linton, di un ineffabile ma slavato azzurro nordico (io volevo gli occhi azzurroverdegrigio, come quelli di mio fratello, ma se lei li aveva bruni potevo forse dirmi contenta dei miei); e c’era la brughiera, il vento, l’erica, il battito segreto e animale della vita quando non è addomesticabile. Di Emily e delle altre non sapevo nulla, le avrei conosciute solo più tardi. Quello che doveva esserci era tutto lì dentro. (…) Ho riconosciuto quella stessa vibrazione da brughiera in un romanzo incontrato qualche anno fa, Ora che è novembre (Bompiani, 2016) di Josephine Johnson, che io stessa ho tradotto: un altro tipo di classico, premio Pulitzer nel 1935, ignoto in Italia. Quando leggo certi libri scatta qualcosa, li riconosco, mi diventano necessari all’istante, è come se fossero sempre stati lì e insieme rimpiango di non averli conosciuti prima ma anche il momento in cui finalmente li ho incontrati: una sorta di complicata nostalgia di ciò che c’è. 

Le protagoniste sono tre sorelle: una bella e tranquilla, una brava con le parole, una matta. All’inizio della storia sono bambine, poi crescono, diventano donne insieme, e sarà l’amore a dividerle, l’amore e la fatica di vivere. La seconda, Marget, che è anche la narratrice, è la mia preferita, perché è lei che sa dare voce a quella straordinaria comunione con la terra che imprime un senso alla loro esistenza di trapiantate dalla città in un mondo ostile e indomabile, un mondo che gli sforzi congiunti del padre e della madre non riescono a far fruttare abbastanza. Mi sono stati da subito così familiari, quelle campagne ingenerose, quei giochi d’acqua e di foglie, quella crudeltà insita nella bellezza: la stessa fatica della natura che avevo incontrato anni prima – di nuovo da bambina – nel Cucciolo (1938) di Marjorie Kinnan Rawlings. Un’altra donna premio Pulitzer, un altro corpo a corpo con un mondo ostile e incontrollato dove i sentimenti più puri – l’amicizia tra un bambino e un cerbiatto – si scontrano con l’ineluttabile. Avrei voluto essere Jody, io sì che sarei riuscita a placare le smanie di Flag, a farlo diventare mansueto e obbediente come un cane da compagnia. Io sì. Sicuro. 

Nell’immagine vicino al titolo, Laurence Olivier e Merle Oberon in una scena del film “La voce nella tempesta” di William Wyler (1939) tratto dal romanzo “Cime tempestose” di Emily Brontë.

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