Raoul Precht
Un racconto inedito

L’ultimo aperitivo

«Dopo una sommaria ricognizione degli ingredienti disponibili con il vivandiere che fungeva occasionalmente anche da cuoco e che sembrava istupidito da tanto onore, aveva optato, in omaggio ad Apicio, per un’offerta frugale ma gustosa»

L’accampamento, in quella lontana provincia, non offriva alcun lusso: di questo Marco Flavio era perfettamente consapevole. Ancora più onorato, dunque, avrebbe dovuto sentirsi, o almeno questo pensavano tutti, di quella visita inaspettata.

Il praefectus castrorum avrebbe visitato le truppe nella tarda mattinata, e al termine dell’ispezione avrebbe preteso, com’era peraltro d’uso, di essere rifocillato, se non con un vero pranzo, almeno con una piccola gustatio, un antipasto rinforzato. A quest’incombenza non si sfuggiva.

Informato a tempo debito, Marco Flavio aveva dato ordini precisi affinché tutto venisse predisposto: dopo una sommaria ricognizione degli ingredienti disponibili con il vivandiere che fungeva occasionalmente anche da cuoco e che sembrava istupidito da tanto onore,  aveva optato, in omaggio ad Apicio, per un’offerta frugale ma gustosa, con il moretum, pecorino all’aglio aromatizzato con sedano, coriandolo e ruta, l’epityrum, paté di olive con semi di coriandolo, cumino, finocchiella, ruta e menta, e infine una frittata di lattuga. Piatti semplici, comuni, che all’illustre ospite avrebbero sicuramente richiamato alla mente, con una vaga fitta di rimpianto, la patria lontana.

Alla preparazione del mulsum, il mosto aromatizzato al miele, si sarebbe invece dedicato lui stesso al momento opportuno; il vivandiere non doveva preoccuparsene, bastava che per il rinfresco disponesse in bella vista quei due o tre piatti, così da mostrare al prefetto come, anche in condizioni proibitive e agli estremi margini dell’impero, i sacri doveri dell’ospitalità venivano osservati con il massimo impegno. Visto che c’era, Marco Flavio gli domandò tuttavia di lasciargli un ampio spazio vuoto sul ripiano e di porvi un vaso di miele e varie ciotole di spezie, perché più tardi potesse apprestarsi alla preparazione finale del vino, agli ultimi dettagli. Mancava ancora un ingrediente, lo sapeva, ma quello se lo sarebbe procurato in prima persona.

* * *

Venne, vide e vinse, il prefetto, come da programma, come da manuale bellico; con un’apparizione di poche decine di minuti si sarebbe portato via, al pari di ogni celebrità, l’incomprensibile riconoscenza della plebaglia di militi laceri e schiamazzanti che componevano la centuria. Anche questo, Marco Flavio lo sapeva, così come non ignorava che non c’era modo di opporsi, di protestare contro il fascino che le persone famose, e in specie quelle ingiustamente famose, divenute cioè tali per i loro crimini e la loro tracotanza, esercitano su menti stanche e indebolite.

Tutto si svolse, comunque, secondo il ferreo protocollo che gli avevano comunicato alla vigilia; e alla fine dell’esibizione arrivò anche il momento più atteso, quello del rinfresco. Per tutta la visita il prefetto non aveva dato alcun segno di averlo riconosciuto, di aver scorto in Marco Flavio, sotto la barba incolta, anche solo un accenno di quel che era stato: un vecchio amico prima, l’acerrimo nemico e oppositore poi, e soprattutto il marito della donna che il prefetto aveva sempre desiderato di strappargli, al punto di provocarne la morte. D’altra parte, nei trascorsi di quella guerra infinita e in tutti quegli anni passati invano in un lutto immedicabile, Marco Flavio aveva immaginato e a un tempo paventato di essere divenuto con il tempo, irriconoscibile, il fantasma di se stesso; ora ne aveva la dimostrazione pratica, conclamata.

Mentre gli accompagnatori del prefetto si trattenevano a fatica dall’avventarsi sui vassoi che il vivandiere aveva disposto al centro della tenda principale, Marco Flavio mescé il vino nelle coppe e ne offerse subito una, la prima, al prefetto, con un sorriso spento che non avrebbe potuto tradirlo, tanto poco assomigliava a quello d’un tempo, scomparso dal suo volto da un’eternità.

Con la coppa in mano, facendo attenzione a non versare neanche una goccia del fumante e prezioso nettare, il prefetto tenne l’inevitabile discorso, al termine del quale invitò tutti a un brindisi propiziatorio. Ci sarebbero state altre campagne belliche, altre conquiste, altre vessazioni, altri indebiti arricchimenti, Marco Flavio non ne dubitava. Ma tutto poteva immaginare, il prefetto, tranne che di questi trionfi non avrebbe visto nulla, perché nell’avvicinare il calice alla bocca si avviava verso i suoi ultimi, fragili istanti. Bastò un sorso di quel vino caldo aromatizzato al miele; da buongustaio qual era riconobbe subito dei sentori di spezie, ma niente di più. Non poté avvedersi in alcun modo della presenza impalpabile di una polverina magica, letale, che in pochi istanti ridusse il mondo circostante a una gommosa e indistinta poltiglia, nella quale naufragare senza alcun rammarico.

Se non quello, forse, di non averne scoperto prima i benefici effetti.

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