Domenico Calcaterra
A proposito di “Irene”

Cognizione e pena

Con una nuova raccolta poetica, Paolo Del Colle continua il suo personalissimo percorso di ricerca sospeso tra le parole e le emozioni. Per lui la scrittura è un modo per entrare in contatto con la realtà più profonda: quasi un modo per scoprire radici e senso

Se c’è uno scrittore italiano che, con la sua opera, offre, ad oggi, la netta impressione di perseverare nello scrivere un indiviso libro, un’opera continua, questi è il romano Paolo Del Colle. Ponendo come punto di partenza un privato da sempre innalzato a paradigmatico destino, Del Colle ci ha da tempo abituati a uno scrivere per sottrazione; e non per una mera questione di stile, ma in quanto ricerca di un’esperienza di epifanica appercezione. Giacché la parola scritta rimane pur sempre il fragile e intermittente luogo d’una plausibile, per quanto difficile, tangenza tra verità e vita. Se volessimo paragonare a un esperimento scientifico il suo modo di scrutare la realtà, potremmo convenire sul fatto che esso corrisponda a un progressivo necessario (quasi controintuitivo) allontanarsi da sé, oltre la caduta del senso: uno spersonalizzarsi che conduce alla possibilità di un guardare allargato (finalmente non solo nostro). Siamo alla lezione herzogiana dello sguardo cui ha mirato, con insistenza, in questi anni, e la cui quintessenziale sostanza ha riversato in un singolarissimo libro – a metà strada tra romanzo, personal essay e autobiografia – qual è Il cavallo di Aguirre (Castelvecchi, 2020).

Prospettiva di uno sguardo che volutamente si aliena epperò si fa coscienza che ritroviamo anche in Irene (2021), luminosa silloge uscita per le edizioni dei Quaderni de La Nuova Pesa nella collana Unica, diretta da Arnaldo Colasanti. Dedicato alla sorella, «nel momento più doloroso della sua vita», i versi di Irene assomigliano a uno straniato colloquiare in cui l’Io e il Tu risultano trasportati in un’altra dimensione: «è come se parlassi di altro/ da me di quello/ che non penso di quello/ che non voglio immaginare». Al limite con un’afasica tentazione, che riguarda sia la vita sia la scrittura, difficile ancora d’accettare («continuare a tacere/ è un abbraccio/ cui ancora non siamo/ abituati»), nello spaesamento, nella perdita d’ogni certo e saldo appiglio, non rimane che il coro imploso di un intreccio di voci «alterate/ ma adesso care e perdute».

Alla radice di Irene, incunabolo centrale, di un libro a venire in verità tripartito e di più ampia concezione, in cui, sulla scia di Nuda proprietà (2018), cuce insieme prosa e versi, c’è la consueta spiazzante e incalzante perorazione ontologica che fa da basso continuo alla scrittura di Del Colle: la tensione a una cognizione (seppur in negativo) della sostanza del nostro essere al mondo; non la rinuncia né il passo nell’afasia dunque, ma l’ascolto tetragono del silenzio, del dolore – viatico a una voce che, forse, potrebbe giungere: rivelatrice, inattesa… Accesso a quella simultaneità in cui il tempo si curva e s’addensa in un luogo (privo di centro) di co-esistenze, laddove la linea si fa punto, e verso e recto della vita stessa miracolosamente si elidono a vicenda. Dopo il racconto da «figlio dimezzato» – referto, per lo scrittore, dell’origine d’ogni smarrimento, facendo i conti col padre e soprattutto col progressivo dissolversi della madre aggredita dalla demenza – confluito in Spregamore (Gaffi, 2014), in Irene, è il fratello a giocare d’anticipo, a interrogarsi sullo «statuto provvisorio» di ciò che siamo (a principiare dal nostro stesso nome). Eppure, dalla certificazione della perdita secca, dalla constatata inconsistenza di tutto, talvolta, può scaturire, per il poeta, un’inattesa e potenziale alterità («anche la notte ancora vicina/è una probabilità tra le altre/e non sembra più necessaria/di quanto si intravede»). Disposizione che, oltre a rendere radioso ogni suo verso, è, a oggi, la sua più pregnante e feconda lezione.

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