Raoul Precht
Periscopio (globale)

Narciso e Radiguet

Torna, in una nuova traduzione, "Il diavolo in corpo", romanzo rivelazione di Raymond Radiguet. Occasione perfetta per tornare a parlare di uno scrittore la cui meteora tormentata e contraddittoria scandalizzò la Parigi di cento anni fa

È da poco uscita una nuova edizione, curata per la collana Classici contemporanei di Bompiani da Yasmina Mélaouah, de Le diable au corps (Il diavolo in corpo) di Raymond Radiguet. Non che le traduzioni di questo piccolo classico, anche in Italia, siano mai mancate, se è vero che solo negli ultimi vent’anni se ne contano una quindicina, ma è comunque un segnale che questo succès à scandale degli anni Venti (del secolo scorso, s’intende) continua a parlarci e a irretire il lettore.

Sebbene racconti una storia all’apparenza semplice, il romanzo non è scevro di momenti ambigui e zone d’oscurità. Tutto si svolge nel 1917, in piena Grande guerra, quando il giovanissimo protagonista, François, appena quindicenne, incontra Marthe, una diciottenne di cui s’invaghisce. Marthe tuttavia è già fidanzata con Jacques, un soldato mandato al fronte, che presto sposerà durante una licenza, e la storia d’amore acquisisce dunque subito un qualcosa di sulfureo, soprattutto se si considera il grado d’indifferenza e imperturbabilità nei confronti del mondo esterno ostentato dal protagonista, per il quale la guerra non è la tragedia che tutti gli altri stanno vivendo, bensì solo un periodo di vacanza e al tempo stesso una fortunata casualità, utile a tenere lontano il marito di Marthe. Romanzo d’amore, cronaca di una folle passione? A prima vista potrebbe sembrare; non fosse, appunto, per l’indifferenza e il cinismo del quindicenne, che anche nei confronti di Marthe nutre sentimenti quanto meno ambivalenti e contraddittori, talché il cosiddetto amore è una specie di risultante di una commistione di emozioni e sensazioni assai diverse, dalla pulsione sessuale alla simpatia alla tenerezza al piacere di guidarla e orientarla, ma anche al disagio e al fastidio che lei involontariamente gli procura. L’infatuazione per Marthe, ragazza passiva, credula e facilmente dominata (“l’amour lui donnait une nature d’esclave”), viene inoltre indebolita facilmente da eventi esterni, come gli incontri sporadici con altre coetanee o distrazioni varie, e la possibile morte in battaglia del marito, Jacques, è percepita come un’eventuale sventura, che costringerebbe François a rinunciare all’aspetto ludico della relazione. Di più: quando immagina che Jacques possa tornare e scoprire tutto, si augura che per reazione uccida Marthe e si suicidi. In fondo, in questa sua maturazione repentina verso l’età adulta l’unica persona per la quale François nutra davvero un amore smisurato e incontrastato è lui stesso: più che come una storia d’amore – e non a caso Radiguet stesso lo definisce “drame de l’avant-saison de l’amour” – il romanzo andrebbe letto semmai come una denuncia dell’incapacità di amare e una riedizione del mito di Narciso.

Raymond Radiguet e Jean Cocteau

Anche l’importanza della guerra, prima enfatizzata dalla critica, è stata in seguito notevolmente relativizzata: il primo conflitto mondiale, con le sue inedite carneficine, resta in effetti sullo sfondo come un’ambientazione vaga, mai descritta in modo particolareggiato, e soprattutto senza conseguenze – fatta salva l’assenza forzata di Jacques – per la vita del protagonista, la cui stessa famiglia non sembra esserne affatto sfiorata. È anzi fonte di una piccola, individuale quanto meschina, forma di felicità: “Je devais à la guerre mon bonheur naissant; j’en attendais l’apothéose,” scrive il protagonista-narratore con quel distacco e quel cinismo che riecheggiano l’atmosfera dell’”acte gratuit” di Gide di qualche anno prima (Les caves du Vatican era uscito nel 1914). Il primo incontro con Marthe, comunque, avviene nell’aprile del 1917, ma la storia termina con la morte della ragazza, incinta del protagonista all’insaputa di Jacques, nella primavera del 1919, a guerra dunque abbondantemente conclusa.

Nel libro, come spesso accade per i romanzi d’esordio, gli elementi autobiografici sono numerosi e incontestabili, anche se in una nota al testo lo stesso Radiguet ne limita, e di molto, l’importanza, asserendo che autore e protagonista non vanno mai confusi e che in un romanzo tutto deve essere rigorosamente falso. Questi elementi, tuttavia, ci sono: primo fra tutti la relazione, durata un anno, fra l’appena quattordicenne Radiguet e la figlia dei vicini di casa, Alice Saunier, che di anni ne aveva ventitré e il cui marito era stato appunto spedito al fronte. In questo caso la relazione termina però in modo molto meno romanzesco, con il ritorno del reduce nonché, probabilmente, anche a causa delle prime esperienze lavorative di Radiguet, che lo inducono a trasferirsi dalla provincia a Parigi. Indiscutibile è in ogni caso la maestria di un autore così giovane nel trasformare questo canovaccio autobiografico in un’opera letteraria per nulla ingenua, ma anzi dosata e sapientemente intessuta di riferimenti letterari e culturali sorprendenti, che con la sua andatura compassata e quasi tradizionale mostra, come aveva giustamente colto Giovanni Macchia, un certo disprezzo per l’originalità a tutti i costi e una rara sapienza compositiva.

Qui si apre tuttavia un altro interrogativo appassionante al quale non è stata ancora data una risposta definitiva. Quanto c’è nel libro, così come nel successivo Le bal du comte d’Orgel (Il ballo del conte d’Orgel), di originale, nel senso stavolta di ascrivibile a Radiguet, e quanto di esterno e sovrapposto? Come sceverare cioè a posteriori quel che è davvero farina del suo peraltro ben nutrito sacco e quel che andrebbe invece attribuito al suo amante-mentore Cocteau, anche volendo tacere delle doti organizzative e propagandistiche del terzo elemento in gioco, l’editore Grasset?

L’incontro con Cocteau avviene nel 1918, quando il quindicenne Radiguet, abbandonata la scuola che frequentava a intermittenza e con risultati nell’insieme scarsi, decide di darsi al giornalismo. Intrigato dalle sue poesie, e più ancora dalla personalità del ragazzo, Cocteau lo prende sotto la sua ala protettrice, lo presenta agli amici (Satie, Poulenc, Max Jacob, Picasso, ecc.) e lo inserisce nelle redazioni delle riviste d’avanguardia – una, Le Coq, la fonderanno anzi insieme due anni più tardi. I due convivono, anche se Radiguet, bisessuale, nel lustro che segue non disdegna relazioni (da Cocteau tollerate) con muse più anziane di lui, tra cui un’affermata pittrice, una modella che sarà la futura moglie di René Clair e l’ex amante di Modigliani, autore peraltro di un bel ritratto del Nostro (nella foto). Per lavorare al Diavolo in corpo i due si allontanano nel settembre del 1921 dalle distrazioni dello scintillante ambiente di Montparnasse ritirandosi in campagna, cosa che avverrà ancora una volta, l’anno successivo, per la stesura del secondo romanzo. L’aiuto e la supervisione di Cocteau nella stesura di entrambi i testi sono considerati oggi, senza nulla togliere alle capacità del giovanissimo Radiguet, del tutto certi e fondamentali; semmai, si discute sugli interventi specifici e sul tipo d’influenza che Cocteau può avere esercitato. È molto probabile, per esempio, se non assodato, che le ultimissime parole pubblicate da Radiguet non siano sue, ma un’aggiunta di Cocteau. La famosa frase finale del Ballo, infatti, in cui Anne, il conte, intima alla moglie di dormire (“E adesso dormite, Mahaut! Lo voglio.”) si sarebbe conclusa originariamente con il nome proprio, mentre questo ridondante “lo voglio”, che fra l’altro allude vagamente (e un po’ volgarmente) all’arte ipnotica allora in voga, sarebbe dovuto alla penna, non sempre miglioratrice, di Cocteau.

Due parole, per giustizia, anche sul terzo artefice del successo letterario e mondano di Radiguet, ossia l’editore. Bernard Grasset era una specie di sismografo di tutte le tendenze culturali che attraversavano l’Europa. A trent’anni, subito prima della guerra, era diventato famoso nell’ambiente accettando di pubblicare, dopo che diverse altre case editrici l’avevano rifiutato, il primo volume della Recherche proustiana, sia pure a spese dell’autore e senza, a quanto pare, averlo letto; in seguito, aveva lanciato gli scrittori che in gergo passavano per “le quattro M”: Maurois, Mauriac, Morand e Montherlant. Man mano che l’azienda s’ingrandiva, vi sarebbero approdati, fra gli altri, Cocteau, Giono, Cendrars, Ramuz e una quinta M, quella di Malraux, e per un paio di libri Grasset sarebbe riuscito a sottrarre a Gallimard anche Drieu la Rochelle; per non parlare poi degli autori stranieri d grande risonanza in tutta Europa, primo fra tutti Stefan Zweig. Ma nel caso di Radiguet quel che più conta è sottolineare le capacità pubblicitarie di Grasset, che già qualche anno prima aveva ordito una promozione martellante per Le feu di Henri Barbusse e che, nel marzo del 1923, intorno al Diavolo in corpo monta una campagna all’epoca del tutto inedita, sfruttando al meglio la precocità dell’autore e facendone un vero caso letterario. Con tanto di pubblicità cinematografica: un filmato in cui si vede Radiguet scrivere l’ultima pagina del romanzo e abbracciare l’editore al quale lo consegna con una certa solennità, e poi una folla di lettori che in libreria si strappa letteralmente il best-seller dalle mani.

Caso letterario che verrà confermato e forse perfino amplificato dal secondo romanzo, edito sempre da Grasset, il Ballo del conte d’Orgel. Un’opera completamente diversa, che resta programmaticamente alla superficie e in cui sembra non accadere quasi nulla (neanche il ballo del titolo: non assistiamo che ai suoi preparativi). Gli stessi personaggi principali, il frivolo conte Anne, l’incerta moglie Mahaut, l’amante (quasi suo malgrado) François de Séryeuse, sono come fissati in un’immagine che non evolve e in cui l’amore non è che una forma di debolezza e di resa ai dettami della società – il titolo doveva essere in origine Le fantôme du devoir –, tanto che Anne potrà ridurre l’adulterio, con la famosa esortazione che chiude il romanzo, a un mero gioco infantile. Accostato per temi e atmosfere alla Princesse de Clèves, il romanzo rende sicuramente omaggio al Sei-Settecento francese (la Princesse è del 1678), ma il modello è aggiornato e insieme eluso da letture successive, primo fra tutti Stendhal, da un’elegante ironia e soprattutto dallo sguardo imperturbabile che Radiguet volge sull’aristocrazia parigina del primo dopoguerra, un periodo nel quale – a ogni livello di censo – l’individuo sembra scomparire dietro la propria immagine sociale, ed è infine unicamente questa a contare davvero. Senza tacere poi il fatto che, con quest’opera di stampo così classico, Radiguet lancia implicitamente il guanto di sfida al surrealismo, che all’epoca andava per la maggiore e che lui percepiva come il nuovo conformismo letterario, presentando (in modo già molto post-moderno) il manufatto letterario non come ritorno alle origini, a sensazioni ed emozioni primordiali, ma al contrario come un costrutto artificiale, un ordigno da assemblare con la massima precisione possibile. Dietro di lui si agita ancora una volta il fantasma di Cocteau, che nel 1925 ebbe a dichiarare: “…j’ai formé Radiguet pour réussir à travers lui ce à quoi je ne pouvais plus prétendre. J’ai obtenu Le bal du comte d’Orgel.”

Dopo un incauto bagno nella Senna, Radiguet morirà di tifo in una clinica di Parigi pochi mesi dopo il trionfo del Diable au corps, il 12 dicembre del 1923. Morirà in totale solitudine; nessuno, né Cocteau né i membri della sua famiglia, sarà al suo capezzale, colti tutti di sorpresa dalla progressione fulminea dell’infezione da lui contratta, che il medico personale di Cocteau non aveva, a quanto pare, diagnosticato. Non fa quindi in tempo a veder uscire il secondo romanzo, consegnato nel frattempo a Grasset, né a vedere il film tratto dal primo, che nel 1947, protagonista l’intenso Gérard Philipe, lo consacrerà come scrittore di culto anche presso la successiva generazione.

Muore lo scrittore, dunque, e nasce il mito, che perdura e che evidentemente non ha ancora smesso d’incuriosirci e affascinarci.

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