Giancarlo Sissa
Il Ceppo in tre parole /6

Tavolo, bambino sogno

Il luogo dell'accoglienza. Ciò che genera e che è 'profezia'. E quello che rende capaci di tornare a vedere. Tre termini, per Giancarlo Sissa, Premio Ceppo Selezione Poesia con il suo “Archivio del Padre”, per esprimere «il valore archetipico di un modo di stare nella vita e di raccontarla»

Premio Ceppo Selezione Poesia 2021, Giancarlo Sissa è uno dei tre finalisti al Premio Poesia che il 25 giugno vengono votati dalla Giuria dei Giovani Lettori. Come scrive Gabrio Vitali nella motivazione, il poeta vince con la raccolta Archivio del Padre (MC 2019) «perché lafigura scomparsa del padre operaio e le sue parole impersonano, nella memoria del figlio, il valore archetipico di un modo di stare nella vita e di raccontarla.I tratti di uomini e di cose affrescano lo scenario di un orizzonte esistenziale di accoglimento della sorte e insieme di forte resilienza». (www.iltempodelceppo.it).

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Tavolo
È il tavolo della cucina di una città lontana dove sono stato bambino. È il tavolo col piano sciupato di formica rossa costruito dal nonno materno, falegname e violinista. È il tavolo dei compiti, ingombro di disegni colorati a matita, dove vengono apparecchiati l’astuccio e le penne e squadernati libri, taccuini, album. È la mappa sempre mutevole che consente di inventare ogni giorno nuovi mondi accanto a chi compie i gesti magici del cucinare, le uova e la farina diventano torta, la cipolla e il pomodoro diventano condimento, l’infanzia diventa sogno. È il luogo incredibile dove mio padre mi ha insegnato a disegnare e dove, stanco, posava il capo sulle braccia prima di tornare al suo lavoro di operaio. È il luogo dei giochi puliti e più adulti: lo shangai, la dama, gli scacchi, i giochi da tavolo, fra le tazze della colazione e della merenda con gli altri bambini d’inverno, un po’ di briciole fra i dadi del gioco dell’oca, del monopoli, fra le carte da briscola. È la pianura dove i ricordi partono in bicicletta, si danno appuntamento, si organizzano in un tema, in un esercizio di poesia, in qualcosa che prima non esisteva e che ora si chiama presenza. È il luogo dove nell’alba del tredici dicembre sempre aspettavano i giochi e i dolci di Santa Lucia, soldatini, monete di cioccolato, scatole di Lego, torroni e torroncini, innocue pistole, il Meccano e ancora una mezza foglia di lattuga appena masticata dall’asinello. È il tavolo su cui ho scritto il mio primo libro, un romanzo mai pubblicato, e anche un porto a cui per molto tempo sono tornato, di quando in quando, fra un amore e l’altro, fra una fuga e un ravvedimento, dopo un esame e prima di ripartire. È una parola buona, intera, vera, accogliente, della quale avere nostalgia quando la vita si fa un poco più scomoda e va corsa come una gara in cui nessuno vince. Forse la parola tavolo è la prima parola che serve ai bambini per scrivere i loro sogni.

Bambino
Bambino è la parola che genera la parola padre, la parola madre, è la parola genitrice, compagna delle parole figlio e figlia. È una parola quasi trasparente, innocente, embrionale, passibile d’essere colorata dalla vita che verrà o resa torbida dal dolore e dalle umiliazioni, rabbuiata dal mal di denti, illimpidita dal riposo fra le braccia di qualcuno che crede di volerti bene. Talvolta fa rima con nostalgia, o con sorpresa, con sgomento, con rabbia, con pipì. È una specie di parola profezia, contiene le altre, come se le sapesse già, anche quando le sbaglia o le dice a casaccio. È la parola che non permette distrazioni, è la parola che costringe anzi alla più intera presenza, poiché attraversa i laghi ghiacciati delle pianure d’inverno, poiché cerca d’imparare a suonare osservando con attenzione le mani del musicista. È la parola che un giorno domanderà perché non le hanno insegnato quelle che servono per fare il calzolaio o il contadino e perché ha dovuto cercarle scartabellando fra i libri o spiando i discorsi dei grandi. È la parola che non permette di scordare perché ha imparato che scordare significa sottomettersi, significa abolire la luce del mattino, farsi inesperti di sé e della propria sacrosanta disobbedienza, della propria rivolta. È la parola che non vuole abbandonare il proprio corpo alla storia ma viverlo piuttosto, portando voce, sventolando un panno colorato di speranza, o correndo come Pinocchio nelle mattine fuori di scuola, dove si spalanca l’immensa luce della libertà o l’incredibile problema della bellezza vissuta per la prima volta, e poi ancora, e ancora. La bellezza, intendo, senza dimensione, senza misura, quella accesa nella stessa parola bambino, la parola che non conosce la morte, la parola che fa di ogni esilio una patria e lo sguardo più generoso e dispettoso al tempo stesso, lo sguardo della parola bambino, dove il mentire non ha intenzione nel suo tentarsi nel mondo, di no in no, verso le ipotesi della sincerità da inventare, da costruire, come un tavolo ingombro di sogni.

Sogno
Ecco la parola incredibile, stupefacente, dove si costruiscono le città e le ipotesi più antiche così come quelle future: sogno. Ecco la parola confine, la parola limitrofa a ogni fiaba, la parola dove ogni archeologia diventa presente, anima, bosco, osteria d’inverno, tracce leggere nella neve, incubo, risacca, amore senza condizioni. È la parola dove, come diceva Jorge Luis Borges, divenuto cieco, si torna a vedere. Sogno è la parola atlante, dove sfilano le gentilezze dell’acqua, le preghiere, gli esorcismi, le amate amanti nella loro evidenza di sirene o fattucchiere o bambine inermi che cercano a loro volta di sognare. È la parola dove gli avi ringiovaniscono e attendono, sorridendo, il nostro più nuovo smarrimento. Ricordi quel sogno ricorrente da bambino? Un sogno a cartoni animati, un poco in discesa, con scalini fra una stanza e l’altra a e che si interrompeva sempre allo stesso punto, senza svelarsi mai fino in fondo. Tempo voleva e tempo lasciava perché ci si occupasse di lui. Mia sorella ha sognato mio padre, silenzioso, serissimo, diventare Pinocchio. Ecco, il sogno libera e ci libera. La parola sogno è una parola scatenata, libera da catene, libera e liberata, una parola che non si può impedire. Il sogno non conosce la noia. La parola sogno si sa da sé, si basta, non si cerca, è. Indovina ogni passo sulla scena, racconta le altre parole come antichissimi gesti, muove appena la luce azzurra d’un cenno, con la mano, col sorriso, senza tempo. In una mattinata di pioggia cambia luce a ogni cosa, la strada è la stessa ma non porta più nello stesso posto, la strada è la stessa ma anche un’altra, sconosciuta, dove le cose iniziano di nuovo, continuamente. Ecco, la parola sogno è il varco, esce dalla storia, senza chiedere il permesso, esorcizza la pena che ci hanno buttato nel cuore gli enigmi dell’ospitalità deserta. La parola sogno è la parola acqua detta in un altro modo, è la parola azzurro in una lingua che conosciamo appena, è la parola tavolo quando i bambini si preparano a colorare.

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