Marco Ferrari
A proposito di “Piedi per aria“

Epica dello sport

Gianni Cerasuolo racconta i misteri di alcuni campioni dimenticati: Garrincha, Guaita, Sindelar, Consolini e altri eroi di un immaginario che sta sotto alla nostra pelle e torna in superficie ogni volta che si parla di miti e di storia. Al di là delle leggende del calcio...

Le storie di sport celano sempre grandi segreti. Non si coglie l’aspetto umano che sta dietro a una performance. Da quando anche lo sport, segnatamente il calcio, è diventato materia di studio e analisi, anche le vicende delle singole persone vengono sempre più a galla. Ce lo dimostra questo insieme di ritratti di Gianni Cerasuolo, infaticabile cronista sportivo, dal titolo Piedi per aria. Storie di campioni dimenticati e maledetti edito da Succedeoggi Libri (pagine 160, 14 Euro, acquistabile in tutte le librerie on line). Il libro si apre autorevolmente con José Leandro Andrade (nella foto accanto), uruguaiano, il primo Pelé della storia del calcio. Colui che portò il Paesito latino-americano a battere il colosso brasiliano. 

«L’Europa non aveva mai visto un nero giocare al calcio» scrisse Eduardo Galeano parlando di questo arcigno difensore lustrascarpe e giornalaio, suonatore di tamburo e di violino, ballerino di tango e amante raffinato che portò la Celeste a vincere il titolo olimpico nel 1924 e nel 1928, a diventare campione del mondo nel 1930. Oggi sarebbe conteso tra Real Madrid e Chelsea, ma in realtà Andrade, la maravilla negra, finì i suoi giorni terreni cieco, ubriaco e povero, con la tubercolosi, abbandonato da tutti. Stesso destino toccò qualche decennio dopo a Garrincha che nel 1966 sposò la famosa cantante Elza Soares. I due si conobbero al Mondiale in Cile dove Elza era stata invitata quale “madrinha da Seleção”. La loro era una storia parallela, entrambi cresciuti in ambienti difficili: lei obbligata a sposarsi a dodici anni, diventata madre a tredici, vittima di un uomo violento che la fece partorire sette volte; lui, dichiarato invalido della nascita, affetto da poliomielite che gli provocò la spina dorsale deforme, uno sbilanciamento del bacino, sei centimetri di differenza tra le gambe e ginocchia fragili. Per lei, il calciatore lasciò la moglie e i sette figli precedentemente avuti, destando grande scalpore nell’opinione pubblica. Un rapporto forte e contrastato al punto che Elza arrivò a rasarsi la testa quando il mitico numero sette smise di bere per un periodo.

Peraltro, la Soares agli inizi degli anni Settanta si trasferì in Italia dove registrò i singoli “Que Maravilha” e “Mascara negra” e l’album “Sambas e mais sambas”. Nel 1977, anno in cui uscì il disco “Pilão+Raça=Elza”, dopo quindici anni ebbe termine il matrimonio con Garrincha, quando lui la percosse in preda ai fumi dell’alcol e lei fu considerata colpevole del declino fisico del calciatore. Lui fece in tempo a sposarsi di nuovo e ad avere la decima figlia senza cambiare le sue abitudini. Perdendo la partita con l’alcolismo, Garrincha detto “Manè” se ne andò via per sempre un anno dopo, nel 1983. I suoi funerali furono un evento: il corpo fu esposto al Maracana, ma lì i parenti della prima e della terza moglie litigarono, poi un tifoso del Botafogo mise un drappo sulla cassa, ma alcuni familiari la tolsero provocando una rissa sedata dall’intervento di Nilton Santos che depose una bandiera brasiliana. La bara fu trasportata sullo stesso camion dei pompieri in cui traversò la città dopo il trionfo mondiale del 1958 tra ali di folla che piangeva e sventolava bandiere.

Nel 1986 morì anche il figlio Garrinchinha, avuto da Elza, in un tragico incidente stradale: annegò in seguito all’uscita dell’auto dalla strada di ritorno da una partitella di calcio tra amici. Al massimo della carriera, nel 2000 Elza Soares si esibì in un indimenticabile concerto a Londra con i connazionali Gal Costa, Chico Buarque, Gilberto Gil, Caetano Veloso e Virginia Rodrigues, venendo premiata come “Miglior cantante del millennio” dalla BBC.

Enrico Guaita

Destino ingrato anche per Enrico Guaita, al tempo in cui il calcio italiano si glorificava di oriundi, dei quali oggi l’ultimo esempio è Jorginho.  Tre uomini in fuga, un giallo, una beffa all’Ovra fascista. È la tarda mattinata del 19 settembre 1935, c’è un bel sole nel cielo di Roma, tre giovani naturalizzati italiani si presentano alla caserma di via Paolina, tra via Cavour e la stazione Termini, esponendo una cartolina color grigio. Sono Enrico (Enrique) Guaita, l’idolo del Testaccio, detto Corsaro nero, Andrés Stagnaro e Alejandro Scopelli “alibi e arruolati” nei bersaglieri, probabile destinazione Etiopia. Mancavano tre giorni all’inizio del campionato, prima giornata, Roma-Torino, partita di cartello. Appena il tempo di fare i bagagli e sparire. Invece del campo del Testaccio, l’elegante e veloce Dilambda Lancia si diresse verso Civitavecchia e da lì risalì l’Aurelia sino alla Spezia. Il gruppo in fuga abbandonò l’auto in Piazza Saint Bon. Lì si persero le loro tracce. Successivamente furono visti alla stazione di Santa Margherita Ligure dove fecero i biglietti per Ventimiglia. Si sedettero nello stesso compartimento. Un gentile signore in doppiopetto leggeva “La Gazzetta dello Sport”. In prima pagina campeggiava un titolo a carattere cubitale: «Vigilia di campionato: la Roma parte favorita». L’articolo esaltava il Corsaro nero e il suo primato di reti nei tornei a 16 squadre: 28 o 29 (le fonti divergono).  Guaita un po’ si vergognò: da capocannoniere ad autore di una fuga da manuale, adatta a un film di spionaggio. Cambiarono treno a Genova Principe, mangiarono un panino ognuno per conto proprio per non destare sospetti e salirono su tre carrozze differenti. Anche a Ventimiglia scesero separati, come se non si conoscessero, superando senza sospetto la fitta reti di carabinieri di guardia ai binari. A Ventimiglia vecchia in un vicolo furono avvicinati da uno che intuì quale era il loro vero obiettivo. «Volete passare dall’altra parte?» chiese loro.  

Il passeur attese la sera poi si avventurò sulla collina di Latte e su sino alla Mortola al solo abbaglio della luna piena. I tre che lo seguivano avevano un bel passo. Su in alto videro le luci di Mentone e si sentirono in salvo. Scesero nei campi di ulivi, si fermarono sotto il tetto esterno di un capanno, appena sopra il paese. Il passeur se ne andò indicando come raggiungere la stazione. Di nuovo si divisero. Uno ad uno andarono a fare il biglietto. Alla francese dissero «Marseille» non «Marsiglia». La sera un tifoso della Roma telefonò in sede: «Mia moglie ha visto Guaita e gli altri due calciatori salire su una grossa auto con le valigie». La mattina seguente i segugi del regime fascisti si misero sulle tracce di quegli «uomini in fuga» ma era orami troppo tardi. Il «giallo Guaita» finì sui giornali con il visto della censura. I tre ex romanisti furono tacciati come «traditori della patria» e accusati, senza prova, di traffico di valuta.

Quando giunsero a Buenos Aires non fu fatto troppo rumore per non rovinare i buoni rapporti tra Italia e Argentina. Tutt’e tre ripresero a giocare nel Racing. Alejandro Scopelli Casanova si ritrovò di nuovo sulla via degli oceani per andare a vestire la maglia francese del Red Star, poi in Portogallo e quindi in Cile; Andrés Stagnaro si rivede raramente sui campi di calcio; Guaita vestì di nuovo la maglia argentina con la quale vinse il Sudamericano del ’37. Tutte e tre si trascinavano anche laggiù la nomea di traditori inseguiti da voci e occhiate offensive, minacce sottili e prese in giro dei circoli degli emigranti italiani. Anni dopo la fuga improvvisa, Guaita scrisse a Vittorio Pozzo: «Ho commesso un grande sbaglio, mi sono rovinato da solo». A 30 anni smise di giocare, assumendo la direzione del penitenziario di Bahia Blanca, ma poi perse il posto. Quando morì, nel 1959, a causa di un tumore, non aveva compiuto ancora 49 anni. Era povero e solo, ospitato in casa di amici, in pochi vicino a lui, in Italia non lo ricordava nessuno. Il presidente della Roma, Sacerdoti, già dimissionario, si ritrovò imputato di esportazione illecita di denaro. Fu considerato colpevole e inviato al confino. Riuscì a salvarsi ai rastrellamenti e alle deportazioni in Germania rifugiandosi in un convento.

Rachid Mekhloufi

Queste sono probabilmente le tre storie più emblematiche del libro ma eguale attenzione meritano gli altri sportivi “maledetti”, come scrive Maurizio Crosetti nella prefazione; “Ci sono uomini che sembrano romanzi, lo sport ne ha raccontati tanti ma di più ne ha dimenticati. Vite incenerite dal lampo di una fiamma, oppure consumate nella lentezza del declino”. Così è per il povero Matthias Sindelar, che non fece il saluto nazista e morì misteriosamente assieme alla compagna, l’ebrea italiana Camilla Castagnola; Rachid Mekhloufi che lottando per la sua Algeria perse l’occasione di una Coppa del mondo con la maglia della Francia; l’indimenticabile George Best; il ciclista garibaldino Michele Dancelli; Raymond Poulidor, detto Poupou, l’eterno secondo, il grande sconfitto, l’eroe disgraziato del Tour, battuto da Felice

Gimondi il 14 luglio del 1965 al Parco dei Principi; Adolfo Consolini, il gigante gentile e tanti altri ritratti che un Picasso della penna non avrebbe potuto tratteggiare con altrettanta maestria e, in fondo, attaccamento perché Cerasuolo, che ha dato un pezzo della sua vita all’Unità (oltre che, poi, a Repubblica) ha visto cadere per terra un gigante senza che si rialzasse mai più.

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