Leopoldo Carlesimo
Passeggiata in montagna/2

Marco e Giuliana

«Giuliana, sotto, conversava con Hilde. L’italiano stentato di quella donna, congiunto alla sua bella faccia montanara, dura e priva di trucco, intarsiata di rughe, le avevano sempre ispirato un’istintiva simpatia»

Dopo cena, Hilde e Rudi si fermarono a chiacchierare. La malga era semideserta. In bassa stagione, quando non erano troppo occupati con la folla dei clienti ordinari, usavano intrattenersi con gli habitués prima di sparecchiare. E loro due – Marco e Giuliana – habitués lo erano eccome, frequentavano da anni quella vecchia baita appena a est di Brunico, sul versante nord della Val Pusteria.

Marco colse quel momento per alzarsi. Lasciò Giuliana seduta al tavolo, mentre i due s’avvicinavano.

“Esco a fumare,” disse. “Salgo direttamente in camera, dopo. T’aspetto su.”

“OK,” rispose Giuliana.

Fuori era buio e freddo. Ma non tirò su la lampo della giacca a vento, non ne valeva la pena. Pochi passi, fece il giro sul retro e salì lungo la scala esterna che portava al ballatoio del primo piano. Di lì entrò direttamente nella stube buia, dove lei lo aspettava. Trovò aperta la porta e la richiuse a chiave dietro di sé.

“Ci sei?” Bisbigliò.

“Sono qui.” Sentì rispondere.

Marta era nell’angolo accanto alla stufa. S’era già spogliata. Nella fioca luce lunare che entrava dalla finestrella, le braccia aperte, gli sorrideva.

“Matto!” Disse. “Non dovremmo prendere certi rischi… Stiamo esagerando, sospettarà qualcosa.”

Lui non le lasciò il tempo di dire altro. La prese tra le braccia e la baciò.

“Dobbiamo fare in fretta,” disse. “Giuliana è giù con Hilde, non ne avrà per molto.”

Lei gli si appese al collo cingendogli i fianchi con le gambe, i piedi incrociati dietro di lui. Gli premette le labbra sulla bocca. Lui spinse entrambe le mani tra i suoi glutei. 

“Oh, prendimi!” Disse lei.

Giuliana, sotto, conversava con Hilde. L’italiano stentato di quella donna, congiunto alla sua bella faccia montanara, dura e priva di trucco, intarsiata di rughe, le avevano sempre ispirato un’istintiva simpatia. Anche in quella lingua rudimentale, che non padroneggiava, Hilde era loquace, una rara chiacchierona altoatesina, a differenza del marito, Rudi, che era invece un po’ un orso di montagna, burbero e cupo. Amava quella vecchia coppia così variamente assortita e amava quel posto.

“Vai su prima tu?” Disse Marta. Stava rassettandosi alla meglio i vestiti, dopo quella sveltina nell’angolo buio della stube.

“Ma no, saliamo insieme,” disse Marco.

“Potrebbe sentirci. Dobbiamo essere più prudenti, Marco…”

“Starà già dormendo. La conosco. Cos’hai? Scrupoli, rimorsi?”

“Non so… forse. Giuliana e io siamo amiche. Davvero. Da così tanto tempo… Mi vuole bene, e anch’io gliene voglio.”

“Oh…”

“Ma con te è inutile parlarne. Che ne sai tu di queste cose…” Lo contemplò per qualche istante con serietà. “Sì, che ne sai… Non ti commuove niente e nessuno, eh? Arido come il deserto… Mi domando che ci faccio, con uno come te.”

“Forse ti piace il deserto. E poi, senti, lascia stare. Non c’è nulla di più ingannevole, e lo sai. Guarda te e Giuliana. Me e Giuliana. Anch’io le voglio bene, a modo mio…”

“Tu non vuoi bene a nessuno. Meno male che non avete figli, tu e lei…”

“Già. Meno male. Quando vedo te coi tuoi amorucci… Ringrazio dio tutti i giorni di non averne.”

“Sei detestabile.”

“Non è vero. Ti piaccio.”

“Sì…”

Le infilò la mano sotto la gonna. Lei lo lasciò fare per pochi istanti. S’abbandonò. Ma quando lui prese a spogliarla di nuovo si riscosse e lo respinse.

“Matto!” Disse. “Lo sai che non abbiamo tempo.”

Gli sgusciò dalle mani, s’avviò decisa alla porta rassettandosi nuovamente la gonna.

“Salgo io, per prima. Tu aspetta cinque minuti. Esci fuori, che senta il freddo su di te. Sei stato in veranda a fumare, ricorda. Fallo davvero. Passaci qualche minuto, accenditi una sigaretta…”

“Ma sì, sì…” disse lui.

Però non lo fece. Uscì subito dopo di lei. La inseguì su per le scale. Lei accelerò il passo e fece appena in tempo a sfuggirgli, quando lui tentò d’abbracciarla sul pianerottolo. S’infilò svelta nella stanza, chiudendogli la porta in faccia.

Marcò si ravviò i capelli, aprì la porta della stanza accanto ed entrò. L’abat-jour sul lato di Giuliana era già spento, riconobbe nella penombra la massa rannicchiata del suo corpo sotto il piumone. Solo l’abat-jour sul lato opposto era acceso, una luce fioca, lampadina da poche candele che rischiarava alla meglio il guanciale e uno spicchio di testiera del grande letto in legno. Vecchio mobilio rustico di malga le cui sagome emergevano a stento dall’oscurità: il grande armadio a quattro ante, il cassettone, la sediola con la spalliera a incastro sulla quale cominciò ad ammucchiare la sua roba, spogliandosi.

Gli parve che lei non dormisse. E allora, quando fu in mutande, infilandosi sotto il piumone si chinò su di lei e le depose un bacio sulla tempia, tra i capelli scomposti. Lei emise un mugolìo insonnolito. No, non dormiva.

La mattina dopo, nel dormiveglia, sentì il corpo di Giuliana sopra il suo. Faceva qualcosa. Stava compiendo un’operazione su di lui.

Lo annusava.

Sì, lo annusava. Quest’atto animalesco, canino, lo mise all’erta. Si girò verso di lei, fingendo d’essersi svegliato allora. Lei accennò un sorriso tirato, fissandolo in un modo… carico di dubbio, di domande inespresse. Malgrado il sospetto che animava quello sguardo, accettò la sua carezza. Permise alla mano di farsi strada tra i capelli, lungo il collo, di cingerle le spalle. Rotolarono in un abbraccio assonnato.

I loro corpi erano caldi, odorosi di notte appena trascorsa, di letto comune… quel ben noto tepore coniugale che non mancava mai di rasserenarlo, dopo. Una ricetta infallibile. Sicché ciò che aveva iniziato come fredda reazione al suo investigare – abbracciarla, carezzarla, interrompere quel suo annusarlo con gesti abitudinari d’affetto, una manovra diversiva per dissolvere l’inquietudine che sentiva agitarsi in lei – quell’automatico e funzionale meccanismo d’autodifesa si tramutò in desiderio fisico: Giuliana gli piaceva, forse più ancora di Marta. Soprattutto al mattino, appena svegli. Quell’intimità nota e rassicurante… E doveva avere lo stesso effetto su di lei, che si lasciava andare… Amore mattutino con Giuliana, serotino con Marta. Le desiderava entrambe, a fasi alterne; solo raramente, nelle sue fantasie solitarie, le aveva possedute insieme.

Le carezzò i fianchi, risalì con le mani a cercarle i seni. Lei rispose al suo bacio – bacio coniugale, da marito e moglie che dopo tanto tempo conoscono bene il disgustoso sapore dell’uno dell’altra, al risveglio; ma l’hanno assorbito, hanno mitridatizzato le reciproche sporcizie, non hanno più bisogno di far pulizia, prima – si lasciò sfilare la camicia e s’abbandonò. Questo amava, in Giuliana: la sua serena indulgenza, la sua comprensiva indifferenza; tanto diversa da Marta, così attenta agli equilibri, sempre all’erta, vigile nel presidiare il territorio, esigente, intransigente, assertiva. Giulana no: lei non pretendeva nulla, non aveva niente da imporre; si dava, questo era tutto.

Ma quando uscì dalla doccia, dopo, e se la trovò davanti, seduta sul bordo di letto, pronta e perfettamente equipaggiata – calzoni da escursione, maglione, scarponcini allacciati, zaino fatto – che lo fissava con qualcosa in punta di labbra, capì che l’inquietudine del risveglio non s’era dissolta.

Giuliana disse: “Chi c’era con te quando sei rientrato, ieri sera?”

Marco aveva l’asciugamano grande legato attorno ai fianchi. Con quello piccolo si sfregava vigorosamente i capelli. Se lo passò dietro la schiena, tirandolo su e giù per i lembi, una mano sopra la spalla destra, l’altra all’anca sinistra, facendo arco col dorso.

“Nessuno,” disse, mascherando in quell’energica toilette la falsità del tono.

“Sì che c’era. Ho sentito dei passi, oltre ai tuoi. E l’altra porta al piano aprirsi e chiudersi.”

“Ah sì?” Disse lui. “Può darsi, io non me ne sono accorto. Mi sono infilato subito dentro. E’ possibile che qualcuno sia uscito o rientrato proprio in quel momento…”

“Ci siamo solo noi alla malga, Marco. Noi due, e poi Marta coi bambini…”

“Sarà stata Marta, allora… Se ci tieni stasera, al ritorno dalla gita, glielo chiediamo. Ma perché? Cos’hai, Giuliana, sei tanto strana, stamane…”

“Niente. Non so… Credo non sia niente,” disse confusamente; ma poi alzò lo sguardo, lo fissò con durezza e aggiunse: “Avevi addosso il suo odore, ieri notte.”

“Cosa?”

“Il suo odore. Il profumo di Marta. Lo conosco.”

Lui trovò finalmente il tono giusto, incredulo, smarrito: “Giulana, ma che dici?”

“Sì, era il suo. Ne sono certa…” La voce le si ruppe. “E hai voluto fare l’amore, appena svegli…” Ora tremava. S’accorse solo dopo delle lacrime, sentendone il salato sulle labbra. Le riempivano gli occhi, rigavano il viso, offuscando lo sguardo. Attraverso quello schermo traslucido, vide avvicinarsi un Marco deforme.

“Giuliana, ma non crederai… A che pensi?”

“Nulla, non so…”

Si fece avanti e la prese tra le braccia. La sentì sciogliersi. Ne aveva bisogno. Aveva bisogno delle sue carezze.

“Non so… Ho fatto brutti sogni, stanotte…” disse.

Lui continuava a lasciar parlare le mani. Tanto più affidabili ed efficaci delle parole.

“Ma adesso va meglio. Davvero… Scendo a far colazione,” disse lei. “T’aspetto giù.”

Uscì. Lui capì che non era finita. S’allontanava per proteggersi, era cosciente d’esser vulnerabile. Ma dentro proseguiva il lavorìo di quel tarlo. Si chiese come impedirlo.

Ci mise parecchio a vestirsi. Ebbe bisogno di riflettere. Prese il telefonino e mandò un messaggio a Marta, per avvisarla. Poi indossò lentamente il solito armamentario: calzamaglia, calzettoni, camicia di flanella, pantaloni termici, maglione, giacca a vento… controllò più volte che nello zaino ci fosse il necessario. Quando scese, equipaggiato di tutto punto, al tavolo della stube lei non c’era più.

Si sedette con calma e cercò di concentrarsi sulla colazione. Alla malga di Hilde, valeva da sola il viaggio. Quel burro così ricco, il loro yogurt leggero e freschissimo, le marmellate e il pane fatti in casa… C’era lo strudel e kaiserschmarren con marmellata di mirtilli; e poi, se avesse avuto voglia di salato, speck con rafano e sottaceti e formaggi di malga. Mangiò abbondantemente e fece provviste, ficcando nello zaino un po’ di speck, del formaggio e del pane per la gita. Intanto rifletteva, provava a seguire il filo del ragionamento che ipotizzava si svolgesse nella mente di lei.

Aveva sentito i loro passi, ieri sera, aveva riconosciuto il suo odore. E con ciò? Probabilmente adesso risaliva da quei capi: recuperava frammenti, li cuciva assieme, riordinava dettagli. Marta, la sua vecchia amica Marta, tutto avrebbe potuto aspettarsi meno che…

La sua vecchia amica Marta. Giuliana gliene aveva parlato tante volte, in passato. S’erano conosciute da bambine: stessa parrocchia, corso di catechismo della la prima comunione. Allora si somigliavano: due bimbe magroline, biondine, con le lentiggini e le trecce. Fu la somiglianza fisica ad attrarle l’una verso l’altra. Una somiglianza che non sfuggiva a nessuno: gli altri al corso, i compagni, le monache, le prendevano per sorelle. E anche loro riconobbero subito quell’affinità esteriore che le spinse a superare la timidezza del primo giorno, come una sorta di magnetismo animale. Non erano neppure lontanamente parenti.

Una volta rotto il ghiaccio, nei giorni successivi fu ancora l’esplorazione dei loro corpi, delle loro somiglianze e differenze, ad approfondire la reciproca attrazione. Marta aveva le scapole alate, Giuliana no. Entrambe avevano gli incisivi storti, macchinette in vista per tutt’e due. Avevano la pelle dello stesso colore; ma Giuliana tendeva a scottarsi e spellarsi, d’estate; Marta invece diventava subito di un brunito scuro, tinta che detestava. Entrambe avevano parecchi nei, ma disposti diversamente e distribuiti con densità ineguali nelle varie parti del corpo. La conoscenza, il confronto dei loro corpi, le differenze che vi riconobbero sotto la somiglianza che tutti proclamavano, furono il terreno delle loro prime confidenze, il veicolo della loro nascente intimità.

Insomma, divennero inseparabili. Uno di quegli innamoramenti infantili folgoranti e dispotici che maturano talvolta, nell’adolescenza, in amicizie profonde e durature. Non frequentavano la stessa scuola, alle elementari. Ma una volta alle medie pretesero che le famiglie le iscrivessero in classe assieme. Furono quasi ininterrottamente compagne di banco per tutto il liceo. E non ebbe alcuna importanza, poi, il fatto che nel corso degli anni quella somiglianza fisica che le aveva tanto irresistibilmente attratte si dissolvesse. Con lo sviluppo, divennero due ragazze completamente diverse. Alta, statuaria, bionda di carnagione chiara e forme classiche l’una; esile e svelta, capelli castani, forme espressive e dinamiche l’altra. Ma erano grandi amiche e dopo la maturità s’iscrissero a Giurisprudenza assieme.

Durò fino ai primi anni d’università, quando Marta si mise con quel tale, quel Luigi che Giuliana detestava. Questo le allontanò. Ne parlarono raramente, al principio, come uno scoglio da evitare. Solo che non era evitabile e una volta o due arrivarono involontariamente a sfiorare la lite. La rottura avvenne all’improvviso – sorprendendole entrambe – su un dissidio da nulla, un pretesto che servì a constatare simultaneamente, l’una e l’altra, che qualcosa era finito. Si rividero raramente, dopo, e non ne riparlarono mai. A poco a poco la questione Luigi eresse una barriera e le loro strade si separarono. Preferivano evitarsi in facoltà. Poco più tardi Giuliana conobbe Marco, si laureò, lo sposò. Seppe che Marta aveva fatto lo stesso con Luigi. Non s’invitarono ai rispettivi matrimoni.

In quella fase della sua vita, questo non aveva più importanza, per Giuliana. Si sentiva serena con Marco, la loro coppia funzionava, trascinata dalla dinamica di cose comuni che piacevano a entrambi (tra le quali le escursioni in alta montagna, che era stata il loro luogo d’incontro: si conobbero in un rifugio poco lontano dalla Val Pusteria) di desideri ordinari, ambizioni condivise. Insomma, l’essenza delle loro nuove vite, principalmente orientate al lavoro. Lei, giovane avvocato brillante, entrò in una rinomata lawfirm che curava contenziosi per importanti compagnie d’affari; lui, talentuoso architetto, trovò un buon trampolino di lancio nell’Expo del 2000 ad Hannover. Oltre alla passione per l’alta montagna, condividevano orizzonti chiari e convenzionali: carriere brillanti, vacanze esclusive, viaggi di anno in anno più ricercati, famiglie leggere e non impegnative. Molto lavoro, ragionevoli aspettative di successo e denaro e niente figli nei piani dell’uno e dell’altra.

Di Marta, invece, Giuliana seppe che ne aveva due. Seppe anche, da vecchie amiche comuni rincontrate per caso, che il suo non era un matrimonio felice. Poi non seppe più nulla per un bel po’. Finché un giorno – erano passati quasi dieci anni dal loro ultimo incontro – Marta ricomparve.

Era forse un po’ smagrita, un po’ sciupata. Aveva un che di triste nello sguardo. Ma per Giuliana era sempre come nessuna al mondo. Non seppe mai se quell’incontro fosse stato casuale. Avvenne in un caffè, apparentemente una sorpresa per entrambe. Il caffè era molto vicino al suo studio d’avvocato, dove Giuliana si fermava tutti i giorni a far colazione prima di salire.

Fu un’apparizione fugace, nessuna delle due poteva restare a lungo. Però si scambiarono i numeri e la sera stessa Giuliana la chiamò. Stettero parecchio al telefono, senza dirsi quasi nulla. Una conversazione leggera. Nessuna confidenza, il quella prima telefonata, molte notizie ordinarie, banalità. L’una e l’altra esplorarono con diffidenza il terreno sul quale stavano forse per avventurarsi. Quella sottile lastra di ghiaccio che le attraeva entrambe e di cui saggiarono con cautela la tenuta, prima d’arrischiarsi, passo passo, a pattinare. Si scambiarono parecchie informazioni, utili come marcapiste di un possibile percorso comune. Quando piantarono l’ultimo, di marcapiste – un ristorante dei vecchi tempi, dov’erano state tutt’e due di recente a cena – sapevano entrambe che si sarebbero riviste. E stavolta per parlare davvero. Avevano o credevano d’avere una misura abbastanza precisa di quanto anche l’altra lo desiderasse, di cosa s’aspettasse da quel ritorno. Sicché poi non contò chi delle due fosse stata la prima a proporlo. A Giuliana restò l’impressione d’averlo fatto lei.

Si videro la settimana dopo, a pranzo in quel ristorante. E allora Marta s’aprì, fu la prima a farlo. Le raccontò del matrimonio con Luigi. Giuliana stette ben attenta a non dire nulla che somigliasse vagamente a un ‘te l’avevo detto’, lasciò che fosse Marta, alla fine, a concluderlo. Probabilmente era già chiaro fin dall’inizio, disse Marta, a tutti fuorché a lei. Lei vi s’intestardì. Quando si aprivano già le prime crepe nella loro unione, volle avere dei figli. Chissà che le era preso, quell’urgenza, quell’ansia di maternità… almeno questo, si diceva allora. E invece, ora lo sapeva, avrebbe fatto molto meglio a non farne. Non con lui. Un maschio e una femmina che ora avevano sei e quattro anni, prodotto di quel tentativo di tenere a galla il matrimonio. Oggi, residui e testimoni di quel fallimento. Dopo era andata avanti ancora per un bel po’, avevano recitato tutto il copione, lei e Luigi, fino alle ultime, scontate battute. Esaurite le quali lui l’aveva piantata per una più giovane.

Questa storia banale, Marta gliela raccontò senza emozione e senza fronzoli, nella fredda luce di una vecchia amicizia. Luce da sala settoria, parve a Giuliana, che non aveva tempestose storie sentimentali da raccontare. Ma le raccontò lo stesso di suo marito, con cui riteneva funzionasse discretamente, ordinariamente, e che le avrebbe presto presentato. Marta non vedeva l’ora di farle conoscere i suoi bambini. Chiusero il pranzo  pienamente riconciliate.

Poco dopo si fecero le reciproche visite a casa e poi presero di quando in quando a rivedersi, sempre più spesso, e in breve fu come se si scongelasse qualcosa dell’amicizia di un tempo, qualche radice non rinsecchita che germogliava di nuovo. Sapevano tutto l’una dell’altra, o almeno così credevano, non c’era bisogno di fingere, non avrebbero mai potuto ingannarsi. Non occorreva dire, tra loro, cose che entrambe conoscevano già; una così lusinghiera economia di parole e di emozioni.

Sicché molto presto cominciarono a organizzare quei week-end comuni, quelle gite con Marco e i figli di Marta, come un’unica grande famiglia. E l’estate dopo fecero le vacanze al mare insieme.

In barca in Grecia, cominciò lì. Presero una vela in affitto a Kerkyra e scesero verso sud. A Parga, sul porticciolo, Giuliana portò i bambini di Marta a prendere un gelato, come tante altre volte. Marta restò a bordo.

Nei ricordi di Marco, era stata lei a fare il primo passo, era tutta farina del suo sacco… Lui, non poteva dire di non averci pensato, prima, e parecchie volte. Marta era un bel bocconcino: vivace, magrolina, belle tette, spiritosa; una brunetta col fuoco dentro… Giuliana, certo, era forse più bella: così solenne e così calma, rassicurante; un po’ noiosa, magari, e ormai arcinota… Insomma, ci aveva fatto già più di un pensiero, ma non si sarebbe spinto fino a provarci. No. Fu lei.

Quando Giuliana s’allontanò coi bambini, lui scese sotto coperta e se la trovò davanti in quel modo… Stava cambiandosi, aveva finto di credere che fosse sceso a terra anche lui… Insomma, se l’era portato a letto, chiaro. Lui non avrebbe osato, con la migliore amica della moglie.

Dopo, però, ci prese gusto. E da allora fu un continuo. A Lefkada – in quelle magnifiche cale orientate verso occidente e lo Ionio aperto, Agios Nikita, Porto Katsiki; e anche in quelle interne, a Nidri, dinanzi all’inaccessibile isola di Onassis, Skorpios – e poi a Kefalonia, a Itaca – in quel magnifico fiordo del porto – e a Zakintos, su una spiaggia in cui le tartarughe deponevano le uova. Ogni occasione era buona per sparire, appartarsi con lei. La libertà sessuale delle spiagge greche. Giuliana pareva così lontana nel pensiero…

Era proseguita a Milano e nei week-end assieme in montagna e in altre gite. In fondo, tutto piuttosto banale. Giuliana era il porto. Marta la navigazione in mare aperto. Entrambe avevano il loro perché. Era un uomo banale.

Finita la colazione uscì. La trovò già seduta in macchina. Aveva gli occhi nascosti dagli occhiali scuri e le sue gote erano arrossate. Aveva pianto di nuovo? O forse soltanto il freddo…  

Ma le nebbie di quell’inquietudine non gli parvero affatto dissolte, nel corso del viaggio in macchina, che fu taciturno, lungo la Valle Aurina e poi al bivio, poco prima di Campo Tures, su per lo stradello a mezza costa che risaliva una valle secondaria, verso Lappach / Lappago e la diga di Neves.

Quando la raggiunsero, il sole aveva appena valicato la dorsale est e investiva in pieno coi suoi raggi la superficie del lago artificiale, ancora cosparsa di lastre di ghiaccio. Il sentiero s’inerpicava a destra, verso il Rifugio Porro, quota duemilaquattrocento, e poi di lì lungo la pista che attraversava in cresta tutto l’anfiteatro, da est a ovest, fino al rifugio Ponte di Ghiaccio, quota duemilaseicento, da cui iniziare la discesa sul versante occidentale, più ripido e faticoso, fino alla diga. Sette ore di cammino, che con le soste ai rifugi sarebbero diventate nove.

Subito dopo aver parcheggiato, mentre controllavano gli zaini, lui tentò una manovra d’avvicinamento.

“Cos’hai, Giuliana, sei così taciturna stamane…”

“Te l’ho detto… Non ho dormito bene.”

“Vuoi che rinviamo? Se sei stanca, non ti senti in forma… Nessuno ci obbliga a salire.”

“Ma no, che dici… E’ una delle nostre passeggiate… Ci farà bene.”

Ed era, effettivamente, una delle loro escursioni preferite, quante volte l’avevano fatta assieme. Conoscevano a menadito il percorso, ogni angolo, ogni anfratto della montagna… Giuliana aveva ragione, ripercorrere quei vecchi passi li avrebbe aiutati. Lei tentò un sorriso. Lui l’abbracciò. Salirono.

Per la prima ora e mezza l’ascensione fu facile. Il sentiero si stringeva avvicinandosi alla prima piazzola di sosta, poco sopra quota duemila. Quando larici e abeti si fecero più bassi e stenti e il bosco diradò, l’investì il vento. Soffiava da nord-est, gelido, e portava a raffiche piccole scaglie di neve ghiacciata aspirate dalle cime dei monti.

Salirono su per la gola finché s’aprì un pianoro dove incontrarono, come spesso accadeva, un branco di cavalli alpini, i corpi robusti e tozzi, criniere e code folte di un biondo spento. Pascolavano nelle ampie chiazze ormai libere dalla neve, che sciogliendosi rempiva di fanghiglia scura le fosse e le trinche di scolo. Il terreno era molle e punteggiato di pozze.

Dietro il dosso il sentiero piegò, salendo ripido verso lo sperone di roccia che svettava sulla vallata. Il belvedere era là sotto: una piazzola fatta di un po’ di ghiaia stesa davanti a una panca e un rozzo tavolaccio di tronchi, con tutto l’affaccio aperto sulla vallata.

Marco sentì di dover dire qualcosa. Erano seduti fianco a fianco, davanti a quel panorama mozzafiato.

“Giuliana,” mormorò senza guardarla. “Non starai ancora pensando…”

“Ma no,” disse lei.

“Perché io…”

“Marco, godiamoci la passeggiata.”

Lui non riuscì a restare seduto. S’alzò, avvicinandosi alla scarpata. Le dava le spalle, fingendo d’osservare le vette in lontananza. Per darsi un contegno impugnò persino il binocolo e lo puntò in direzione del Gran Pilastro, che si stagliava sullo sfondo, contro le sagome massicce e scure degli Alti Tauri. Le loro rocce granitiche, oltre confine, fronteggiavano il calcare chiaro e frastagliato delle Dolomiti, sul versante italiano. Si volse bruscamente.

“Senti, Giuliana…” soggiunse, e nello stesso istante il binocolo gli sfuggì di mano. L’acchiappò al volo, con un balzo, per la tracolla che negligentemente non aveva indossato…

Quando si risvegliò, nel letto d’ospedale, non volle credere che fosse passato tanto tempo. Aveva ancora vivida negli occhi la scena di pochi istanti prima: Giuliana sul belvedere e lui che deve dirle qualcosa d’importante, ma non ricorda esattamente cosa… Impossibile credere all’infermiera, quella biondina insipida che gli ripete commossa: “Sono giorni che aspettiamo, è già passato più di un mese…” Non si trova affatto a Brunico, come credeva, ma a Milano, in una clinica non lontana da casa.

Poco dopo giunse un gruppo di medici. Lo visitarono, lessero strumenti e tracciati sugli schermi, più d’uno di loro si congratulò con lui. Diedero istruzioni. Altre infermiere accorsero. Pareva che un lieto evento, quasi una nascita, avesse scosso il reparto: il paziente ventuno era uscito dal coma.

Mezz’ora più tardi arrivò Giuliana, trafelata, felice. L’abbracciò come poté, districandosi tra tutte quelle flebo infilate nel braccio, quei cavi e sensori che lo collegavano a macchine complicate. Lui si sentiva bene, quasi perfettamente a posto, non fosse stato per la gamba ingessata e le fasciature. Lei si commosse. Lui faticava a comprendere perché. Gli toccò consolarla. Un’infermiera di passaggio si sentì in dovere d’intervenire, aiutandoli a trovare una via in quel trambusto emotivo: “Finalmente può ringraziarla,” disse. “Le deve la vita, sa? Sua moglie l’ha salvata, se non ci fosse stata lei…”

A quel punto, occorsero i racconti e le spiegazioni. Doveroso: mettersi al corrente di qualcosa che lo riguardava tanto da vicino. Su istigazione delle infermiere, che la consideravano un po’ un’eroina, oltre che la loro cocca, toccò a Giuliana raccontare.

Dopo la caduta, s’era affacciata sul baratro. E l’aveva visto giù, spiaccicato contro quel masso… Il conato di vomito, incontenibile, le aveva tolto il respiro. Ma poi s’era detta: “Oh, io qui bisogna che mi calmo. Se non faccio qualcosa io, non lo fa nessuno…” “Che brava!” Commentò una delle infermiere, che ascoltava per l’ennesima volta – ma la prima dalla viva voce della protagonista – quel racconto.

Giuliana s’era pulita il vomito con la manica e con freddezza aveva registrato la posizione esatta sul GPS del telefonino. Poi aveva chiamato il Soccorso Alpino, comunicato i dati, trasmesso tutte le informazioni necessarie e ricevuto dalla voce autorevole e rassicurante, dall’altra parte, le conseguenti istruzioni.

Cui, almeno su un punto, non aveva potuto obbedire. Le avevano ingiunto di restare dov’era, di non azzardarsi a provare a raggiungerlo; avrebbe sommato sciagura a sciagura, senza poter fare comunque nulla per lui, e anzi compromettendo l’unico legame che avevano con loro, la sola possibilità di salvezza per entrambi. Ma quello, naturalmente, era un ordine che Giuliana non poteva eseguire. Aveva riattaccato ed era scesa. “Che coraggio!” Interloquì un’infermiera. “Non so quante donne l’avrebbero fatto!”

Con attenzione, da escursionista esperta qual era, Giuliana aveva intrapreso la discesa. Aveva studiato con attenzione il percorso, scegliendo quello che avrebbe avuto meno probabilità d’innescare frane che avrebbero potuto investirlo, lì sotto… E l’aveva seguito con prudenza, lucidità, freddamente concentrata su quel che doveva fare. Era scivolata più d’una volta, s’era ferita alle mani, all’anca, aveva rischiato di perdere il telefonino – che le era quasi caduto da una tasca stracciata della giacca a vento; ma l’aveva recuperato al volo, l’unico legame coi soccorsi – e alla fine ce l’aveva fatta, l’aveva raggiunto. “Brava! Audaces fortuna iuvat!” chiosò un’infermiera colta.

Quando gli fu accanto, richiamò il Soccorso Alpino, li informò che era vivo, diede notizie del suo stato di salute apparente, confermò la loro posizione. Poi lo prese tra le braccia e lo sostenne, vegliò su di lui fino all’arrivo dei soccorsi… “L’ha salvata,” ribadì un’altra infermiera. “Le ha sorretto la testa, tenendola in alto per tutto il tempo. Questo ha impedito all’edema cerebrale di produrre danni irreversibili…”

“Le deve la vita!” Concluse l’ultima infermiera.

Nei giorni successivi le visite di Giuliana furono quotidiane, per tutto il tempo consentito dall’orario di reparto e anche un po’ oltre, caposala e infermiere fecero un’eccezione per lei, la loro eroina. La coccolavano.

In una di quelle visite, Giuliana si presentò con Marta. Erano sedute da una parte e dall’altra del letto e ciascuna delle due gli teneva una mano.


2. Continua

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