Nicola R. Porro
A proposito di “Visioni di gioco”

La società del calcio

Una raccolta di saggi curata da Maurizio Lupo e Antonella Emina analizza lo sport più popolare del mondo come uno dei territori più significativi della globalizzazione. Quasi un “gran teatro del mondo“ che mette i popoli in relazione emotiva

È in libreria per i tipi del Mulino un importante contributo alla ricerca interdisciplinare di un fenomeno di amplissima rilevanza sociale come la passione calcistica. II volume è curato da Maurizio Lupo e Antonella Emina e ha per titolo Visioni di gioco. Calcio e società da una prospettiva interdisciplinare. Venti autori firmano diciannove articoli dedicati allo sport più popolare del pianeta con l’intenzione di esplorare la costellazione di sottosistemi culturali e di pratiche sociali che compongono l’universo variegato e cangiante del fenomeno. Si tratta di articoli di agile lettura che non indulgono agli specialismi proponendo piuttosto una rassegna spesso accattivante di casi, esperienze e personaggi in qualche modo esemplari.

Nell’Introduzione Maurizio Lupo mette a fuoco il progetto culturale sotteso alla ricerca. Esso si ispira a quella relazione, intuita per primo da Norbert Elias, fra civilizzazione occidentale e produzione dei giochi sportivi moderni. Allo stesso tempo, lo sguardo degli autori è rivolto a un fenomeno già proiettato oltre le frontiere della tarda modernità. Perché analizzare le traiettorie socioculturali del calcio nel tempo della globalizzazione, della rivoluzione digitale (e della pandemia…) consente di cogliere trasformazioni delle preferenze, degli stili di vita, del costume che annunciano e anticipano dinamiche sociologiche a più vasto raggio.

L’approccio è conseguentemente interdisciplinare e non banalmente multidisciplinare. Non si tratta, cioè, di un assemblaggio di riflessioni e di testimonianze in assenza di un’ispirazione unitaria e di un’ottica condivisa. Il tentativo, a mio parere coronato dal successo, è piuttosto quello di recuperare quella “domanda di senso” generata da problematiche a lungo colpevolmente trascurate dalla ricerca sociale perché non confinabili nel recinto degli specialismi. È quanto denunciava Foucault a proposito della sessualità, ma la riflessione può legittimamente comprendere le tematiche del corpo a più ampio raggio, a cominciare proprio dallo sport. Non è un caso, del resto, che si tratti di questioni che hanno attirato l’attenzione dei più “indisciplinati” fra i ricercatori, da Thorstein Veblen a Charles Wright Mills, da a Pierre Bourdieu al già ricordato Norbert Elias. La teoria configurazionale, elaborata per sviluppi e in tempi successivi da Elias, Dunning e dalla cosiddetta Scuola di Leicester avrà non causalmente nella costruzione di un paradigma “figurazionale” del calcio moderno la sua espressione esemplare.

Nicola Bottiglieri propone un articolo di apertura, Il gran teatro del mondo, che ci introduce al possibile significato antropologico del calcio e delle sue subculture. L’autore lo rappresenta come una metafora della buona globalizzazione: quella che rende possibile la comunicazione fra le culture rovesciando l’immaginario sovranista. A cominciare dalla relazione con i cicli naturali delle stagioni (i calendari calcistici dei campionati nazionali), il gran teatro del mondo definisce una sovrapposizione universalistica di tempo sociale e tempo naturale. Analogamente, lo spazio si condensa e materializza in un luogo deputato: lo stadio. In esso si consuma la narrazione drammatica del match. Pronta a sconfinare nell’evento tragico, quasi nell’archetipo dell’antica ordalia. L’esempio perfetto è rappresentato dal calcio di rigore, evento che sospende il tempo e condensa in un istante abilità e sorte.

È però l’intera costruzione di un “fatto sociale totale” come quello evocato da un incontro di calcio a insediarsi in un immaginario collettivo ormai globalizzato come per pochissime altre pratiche culturali di massa. Si può allora risalire alle origini degli insediamenti culturali del movimento calcistico in gestazione, come fa Pierangelo Castagneto ricostruendo l’insediamento sub specie calcistica dell’immigrazione ligure a Buenos Aires fra XIX e XX secolo. Pierluigi Allotti descrive invece l’itinerario che dalle vecchie “arene” ottocentesche conduce agli stadi contemporanei richiamando la funzione da essi assolta come templi della ritualità politica e luoghi-contenitore emozionali di un’aggressività sociale repressa.

Igor Benati e Stefano Pagnozzi ricostruiscono le trasformazioni intervenute nel tempo nel rapporto fra club e tifoserie più o meno organizzate, concentrandosi sui cruciali anni Novanta, quando il sistema è trasformato in radice dall’avvento delle televisioni commerciali e da fenomeni sempre più estesi e sempre meno governabili di auto-organizzazione delle tifoserie.

Il calcio, del resto, è insieme uno spettacolo popolare e un gigantesco business commerciale. Ce lo ricordano Maurizio Lupo e Aniello Barone ripercorrendo la parabola del sistema delle scommesse, combinazione di pura fortuna e di rudimentali competenze nonché produttore di inedite forme di socialità. In Italia il Totocalcio avrebbe unito il Paese per diversi decenni divenendo un luogo privilegiato dei nostri ingenui sogni proibiti prima di essere sfregiato dal totonero e di cadere vittima della rete sempre più fitta tessuta dei bookmaker.

Felicemente complementare a questa rappresentazione della metamorfosi endogena del sistema è la riflessione sui passatempi ispirati al calcio proposta da Enrico Di Bella, che ci accompagna dalla stagione del venerando calcio balilla (o biliardino) al subbuteo, datato 1947, sino all’irruzione delle playstation e a quella vera e propria colonizzazione dell’immaginario sportivo rappresentata, a partire dagli anni Ottanta, dall’avvento dei videogame.

Segnalo inoltre alcuni articoli dedicati ai praticanti e alle reti sociali spontanee del sistema calcio.

Paolo Alfieri ricostruisce l’itinerario dell’associazionismo cattolico nella Milano degli anni Cinquanta-Sessanta, facendone l’occasione per una riflessione su dinamiche a più ampio raggio, che interessano la pedagogia sociale del “calcio dell’oratorio” e la gestazione di reti organizzative di tipo collaterale riguardanti tanto le istituzioni religiose quanto i partiti e le organizzazioni di massa del tempo. Paola Avallone e Raffaella Salvemini analizzano invece lo stato nascente del calcio napoletano, rintracciando i tratti genetici e i caratteri peculiari che emergeranno più nettamente nei decenni successivi.

Lisa Sella dedica alla pratica calcistica femminile una lettura disincantata che ha il merito di evidenziare la lancinante contraddizione fra i successi dell’alta prestazione e le mortificanti disparità normative e retributive di cui continua a soffrire nel suo insieme il calcio femminile rispetto a quello maschile. Laura Bonato si concentra invece sulle tifose del calcio all’interno di una lettura a più ampio raggio che evidenzia quanto ancora il crescente protagonismo femminile (non solo quello delle “curve”, ma anche quello del giornalismo o delle dirigenze societarie) confligga con eredità subculturali remote e recenti.

Il calcio compone inoltre un universo culturale popolato emozioni condensate in parole, colori e suoni. Grazia Biorci indaga il lessico degli striscioni suggerendone una sofisticata analisi testuale. Idamaria Fusco si concentra sulla produzione poetica dedicata al gioco, prendendo le mosse dall’illustre precedente leopardiano per richiamare poi i versi di Umberto Saba e di Fernando Acitelli, la passione del poeta-giocatore Pierpaolo Pasolini ed esempi di felici incursioni letterarie nel giornalismo sportivo postbellico.

Isabella Maria Zoppi propone una brillante panoramica della ricorrente presenza del calcio nei repertori del genere musicale più popolare, l’impropriamente definita “musica leggera”, mentre

Antonio Vivaldi si sofferma sul rapporto fra passione calcistica e musica pop in area britannica, indagate come tratti costitutivi di un’intera identità culturale.

Antonella Emina esamina il caso di un campione che scrive: quello di Lilian Thuram, capace di sviluppare senza complessi una riflessione sul colonialismo e il razzismo facendone materia per un originale racconto autobiografico. Concetta Damiani passa in rassegna le fonti documentarie richiamando la necessità (non solo pratica) di facilitare agli studiosi il reperimento dei materiali.

Chiudono la rassegna segnalare tre articoli dedicati a casi nazionali esemplari. Quello di Pierangelo Castagneto ricostruisce l’insediamento del calcio in Argentina in rapporto all’immigrazione ligure nella stagione compresa fra l’unificazione nazionale e la Grande guerra. Un esempio efficace per ricostruire entro una dialettica di preservazione dell’identità e comunicazione con gli altri (bonding-bridging) la progressiva formazione di un particolare melting pot nazionale.

Bruno Barba concentra l’attenzione sul Brasile, Paese che conosce una sorta di calcistizzazione double way. Essa riflette infatti i vissuti sociali di un’identità in gestazione ma insieme concorre potentemente a modificarla tramite la storica rivalità fra le due capitali (Rio de Janeiro contro San Paolo) e la produzione di una sorta di paradossale “etica fratricida”. Il calcio brasiliano è del resto il prodotto di un sentiment radicato e non privo di valenze drammatiche prodotte da un’autentica antropologia del meticciato.

Lontanissimo dal modello sudamericano, infine, è il caso sovietico, indagato da Settimio Stallone e relativo ai decenni della guerra fredda. Fenomeno di importazione occidentale e di insediamento relativamente tardivo, esso segnala però aspetti inediti e talvolta sorprendenti o poco noti.  Quanto mai utili non solo a illustrare la differenza fra il modello polisportivo sovietico e quello dei club “capitalistici”, ma anche a rappresentare la ricerca di simboli e bandiere capaci di liberare la repressa rivalità fra le “repubbliche” e fra le città simbolo, come Mosca e Kiev.

Si tratta dunque di un lavoro collettaneo di pregio e di grande impegno, che può utilmente contribuire a una stagione di studi più attenti e sistematici di un fenomeno sociale che costituisce una delle “grandi narrazioni” della tarda modernità. Insomma: non solo una ricerca a più voci, ma una sfida da raccogliere per storici e cultori di scienze sociali.

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