Flavio Fusi
Cronache infedeli

L’America “normalizzata”

L'attacco a Capital Hill ha fatto scendere gli Usa dal piedistallo del suo stesso mito. Nel mondo globalizzato il potere è della comunicazione. E chi gestisce l’ignoranza è immensamente più potente di chi gestisce la conoscenza

Nella notte italiana, osservi quelle scene di straordinaria, organizzata, pianificata follia che arrivano da Washington, e dal pozzo della memoria – dal pozzo profondo della storia – salgono alla luce altre immagini lontane nel tempo e lontanissime nella geografia planetaria. L’assalto dei golpisti alla Moneda di Santiago del Cile, o il fallito-riuscito colpo di Stato contro Gorbaciòv a Mosca, per dire. Ma soprattutto – nel fatale ’89 – il sanguinoso assalto al palazzo del governo di Bucarest e lo spaccio di un presidente pazzo, un despota bestiale come il rumeno Nicolae Ceausescu.

“Non sono scene americane”, commenta dagli studi della Cnn David Axelrod, che fu acuto stratega politico del presidente Obama. Più banalmente, l’ex presidente Bush parla di “situazione da repubblica delle banane”.  I due commenti – che pure arrivano da sponde opposte – si equivalgono e indicano un comune errore di prospettiva.   Sembrano supplicare in coro, il giovane spin doctor democratico e l’anziano politico conservatore: “allontana da me l’amaro calice”, dove l’amaro calice che pure bisogna bere, e in questo caso tracannare, è la compiuta e definitiva riduzione dell’America, del grande paese, alle dimensioni e alle beghe, ai pericoli e alle minacce che incombono oggi  su tutto il resto del mondo.

Perché quello che accade in queste ore a Washington è anche un colpo agli stereotipi opposti e alle opposte retoriche che riguardo all’America ci accompagnano fin dai tempi remoti del secondo dopoguerra. Il primo stereotipo, trionfante, individua nel grande paese la madre immacolata della democrazia mondiale. Il secondo, militante, individua nella stessa entità statale, economica e culturale il grande Satana, il guardiano dei continenti, lo spietato poliziotto globale.

Così i commenti di queste ore – sulle due sponde dell’Atlantico – basculano tra opposte retoriche. Gli integrati (usiamo a sproposito un binomio creato da Umberto Eco) chiedono che l’America si svegli da questo brutto sogno e torni a esercitare la sua funzione di guida democratica del pianeta, mentre gli apocalittici, osservando nei fatti di Washington una sorta di nemesi storica, sottolineano con  un certo compiacimento come la madre di tutti i golpe sia ridotta a subire oggi un autentico auto-golpe.

In realtà – la realtà è sempre più complessa delle teorie – assistiamo in queste ore allo stesso brusco risveglio di cui siamo stati testimoni venti anni fa. Oggi Capitol Hill, ieri le Torri gemelle. Anche allora la risposta fu in gran parte ideologica. Il mondo islamico all’attacco, l’occidente in bilico tra il cilicio della penitenza e l’orgoglio delle radici: ricordate la litania stucchevole dell’America che “aveva perso la sua innocenza”? Infine, l’angoscia di non essere più l’Atene dei tempi moderni fece indossare agli Usa la corazza di Sparta e la infilò in un tunnel di guerre, vendette, agguati e macelli che ancora oggi segna nel sangue la nostra cittadinanza planetaria.    

Quel campanello d’allarme doveva invece insegnarci che l’America non era più “lo stato di eccezione”, ma era entrata a pieno tiolo nel pacchetto di mischia del mondo. E lo sappiamo – e lo sanno bene gli americani – che nel pacchetto di mischia ci si sporca di fango, terra e sudore, si dànno e si ricevono colpi, e spesso il sangue agli occhi non fa distinguere tra compagni e avversari. L’America non ha imparato, noi non abbiamo imparato, e in questi venti anni la talpa marxiana ha scavato incessantemente, fino ad arrivare ad apparecchiarci – incredibile a dirsi – un Nicolae Ceausescu in salsa americana.

Dobbiamo dunque parlare – ora che ci attendono altri giorni di batticuore prima della cerimonia di insediamento – della fragilità del sistema americano: fragilità di un modello elettorale, fragilità di un modello politico, fragilità delle istituzioni. Vediamo ora quanto fosse consolatoria la lezioncina delle garanzie, dei pesi e contrappesi, degli anticorpi istituzionali, che avrebbero reso in eterno il sistema americano immune da avventure autoritarie e agguati alla democrazia. Ebbene: per quattro lunghi anni un personaggio come Donald Trump ha imperversato e fatto terra bruciata delle sacre istituzioni senza che un potere superiore di garanzia e correzione abbia potuto fermarlo. Questa impotenza degli anticorpi ci dice come sia avanzato in questi anni il processo di smantellamento dei presìdi e degli automatismi democratici.

Negli anni Settanta un modesto caso di spionaggio politico fu all’origine delle dimissioni del presidente Nixon, che passò alla storia come Tricky Dick, Dick il falso. All’alba del duemila uno straordinario presidente come Bill Clinton fu a un passo dall’impeachement per “fatti di letto”. E l’accanimento politico e popolare fu così furioso che in uno dei suoi libri più potenti Philiph Roth, scrittore straordinario e ardente democratico, accusò la sua America bacchettona e ipocrita di essere passata senza vergogna dalla guerra al comunismo alla guerra al “pompinismo”.

Da allora sembra passata un’era geologica, perché abbiamo assistito a una straordinaria accelerazione e sostituzione dei meccanismi che orientano la lotta politica. Guardate oggi la massa informe e foscamente pittoresca che ha preso d’assalto Capitol Hill: un volgo – si può usare questa parola? – orgoglioso della propria ignoranza e disposto oggi a “menar le mani” e domani a demolire la cittadella assediata della democrazia. Come interpretare, come parlare a queste masse che vivono in una realtà parallela, schiave di una narrazione posticcia e potentissima in cui ogni valore è rovesciato e ogni verità fattuale confutata alla radice?   Il problema della comunicazione e della manipolazione è diventato il problema centrale delle nostre democrazie, perché i nuovi strumenti – pervasivi, universali e ingannevolmente democratici – hanno reso chi gestisce l’ignoranza immensamente più potente di chi gestisce la conoscenza. Se un fellone come The Donald, mentitore seriale e twittatore compulsivo, siede ancora alla Casa Bianca, questo interpella non solo la fragilità americana, ma la fragilità dell’intero orizzonte democratico.

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