Leopoldo Carlesimo
Un racconto inedito

Cena in famiglia con piscina

«...Poi qualcosa doveva essersi inceppato nel suo cervello o nei suoi dintorni. Le olimpiadi erano sfumate. Possibile conseguenza dell’interruzione degli allenamenti, gli piombarono addosso alcuni chili di troppo e una stempiatura precoce»

Cena in famiglia con piscinaLi ammutolì tutti, quella scena. Se mai vi fu dell’audio in sottofondo, qualcuno ebbe cura di ruotare la manopola e azzerarlo. Ripensandoci, dovettero certamente esservi grida, movimento. Ma chi osserva i fatti dall’esterno non li coglie. Coglie solo l’immagine plastica, necessariamente priva di suono, della donna in piedi dentro la vasca, l’acqua un palmo sopra la cintola. Appena riemersa dal fondo con quel leggero carico tra le braccia. I capelli grigi, schiacciati sul cranio, grondano copiosamente; e gli abiti zuppi, aderenti alle spalle e al busto, modellano con crudezza le forme del suo corpo anziano, spigoloso, intensamente scolpito in quella posa di pietà. I volti di tutti contratti in una smorfia che – a causa dell’audio azzerato – non può liberare l’urlo che pur esprimono. Su tutti i volti, la stessa smorfia. Muta, atterrita e impotente.   

I primi ad arrivare furono Lucio e Marta, coi due ragazzi, verso le cinque pomeridiane. Il sole cominciava a calare, ma avrebbe dato loro ancora quasi quattro ore di luce, in una di quelle che s’avviavano ad essere le giornate più lunghe dell’anno. Cesare salutò fratello e cognata dalla veranda. Aveva già un bicchiere di vino ghiacciato in mano.

“Ehi!” disse Lucio. “Allora, ecco il giocattolo! La nuova attrattiva delle nostre vacanze!”

Intendeva la piscina. Quella che, su invito di Cesare e Anna, tutta la famiglia era venuta a inaugurare.

“Un giocattolo che mi è costato cinquantamila euro,” disse Cesare, con la sua voce sgradevole. E suonò subito come una piccola nota stonata.

Anna, la sua compagna, comparve sulla porta finestra della cucina. Esibiva un sorriso radioso. Per raggiungere l’angolo in cui intendeva apparecchiare, in veranda, non seguì un percorso rettilineo, ma deviò leggermente allo scopo di passare accanto a Cesare e strappargli il bicchiere di mano.

“Dài, caro! Sono solo le cinque,” gli sussurrò. “Come ci arrivi, alla cena…”

Un quarto d’ora dopo arrivarono Fulvia ed Enrico, coi loro tre figli, l’ultima dei quali, Manuela, la piccinina di famiglia, ancora piazzata nel suo passeggino. Erano passati a prendere Sveva, la nonna, col grande monovolume di cui Enrico aveva appena finito di pagare le rate. Sveva indossava una delle sue eleganti tuniche di cotone grezzo, acquistate in un angolo del litorale dove sosteneva d’aver scovato un autentico suk maghrebino. Era una donna alta, asciutta, sui settantacinque. I capelli gonfi e morbidi, che dopo la morte del marito aveva smesso di tingere, le avvolgevano in ampie onde il viso scavato dall’età, ma ancora intenso, ancora vitale.

I due figli maggiori di Fulvia si precipitarono a raggiungere i cuginetti in piscina. Sveva li accompagnò sotto il gazebo, dove riordinò e piegò in pile separate gli abiti ammucchiati sciattamente in giro. Sedette al tavolino degli aperitivi e osservò placidamente la vasca rettangolare, foderata di mattonelline azzurre, dove sguazzavano i ragazzi.

Annoverava tra questi anche Lucio, suo figlio minore, che pur aveva passato i quaranta. Un bell’uomo, robusto, fisico abbronzato plasmato dagli sport. Era passato accanto a un’interessante carriera accademica e sportiva, in gioventù. All’epoca del PhD a Berkeley era stato il più giovane ricercatore del college a vedere un suo articolo pubblicato su una delle riviste scientifiche più selettive d’America. E i suoi tempi sui cento farfalla l’avevano candidato ai giochi olimpici di Sydney nel 2000. I successi accademici e sportivi, la bellezza e la naturale allegria l’avevano reso molto popolare tra le studentesse e le ricercatrici del campus.

Poi qualcosa doveva essersi inceppato nel suo cervello o nei suoi dintorni. Le olimpiadi erano sfumate. Possibile conseguenza dell’interruzione degli allenamenti, gli piombarono addosso alcuni chili di troppo e una stempiatura precoce che stonava a morte col fascino leggero cui mesi prima le più belle ragazze di Berkeley parevano incapaci di resistere. Pure la brillantezza accademica svanì misterosamente, i suoi articoli scomparvero non solo dalle riviste scientifiche nazionali, ma anche dai fogli interni del campus. Fu gradualmente retrocesso dal rango di giovane promessa della ricerca californiana a quello di grigio topo di laboratorio di una società farmaceutica a Palo Alto. Dopo un paio d’anni mediocri, ripiegò armi e bagagli e tornò in Italia, dove si sposò. Ora occupava un posto di ricercatore, aspirante associato, in un ateneo romano, non il maggiore.

“Vediamo chi riesce ad appozzarmi!” Gridò Lucio con la sua voce calda, avvolgente, che catturava l’ascolto. In quattro, alleandosi, i ragazzini ci riuscirono.

E tuttavia Lucio conservava ancora – nel portamento, nello sguardo franco, nel sorriso – tracce di una classe che gli veniva dalla gioventù, e che gli altri coglievano immediatamente in lui, un’irriducibile fiducia che gli accattivava la simpatia di tutti. Come un piccolo tesoro che era riuscito a trafugare da quei territori luminosi che aveva attraversato.

Dal mare, oltre la pineta, arrivavano ventate d’aria salmastra. E il fragore ritmico delle onde che si rompevano sulla battigia.

“Dopo cena, possiamo andare a fare il fuoco sulla spiaggia?” Disse Sergio, quindici anni, il maggiore dei figli di Fulvia ed Enrico.

“Vedremo.” Disse Enrico. “Per ora, contentatevi della piscina.”

La spiaggia non era visibile dal giardino. Per allargare la visuale, superando la barriera d’alberi, bisognava attraversare la pineta o salire al primo piano della villa. Fulvia fu l’ultima a scendere dalla Chrysler. Era una donna sui quarantacinque, i capelli biondo-cenere, folti e ondulati, le scendevano in morbide pieghe fino alle spalle; il pareo lasciava scoperte le gambe lunghe e abbronzate. Chiuse il portellone e spinse il passeggino a bordo piscina, prima di raggiungre Anna e Marta in cucina. Fece il gesto d’offrire una mano nei preparativi, e ottenne dalle altre donne il cortese rifiuto che s’aspettava.

“Siamo già in due, qui; in troppe si fa confusione,” disse Anna. Fulvia ricambiò il sorriso, abbozzò le consuete insistenze, poi si ritirò in buon ordine dalla zona lavori.

“Dài tu un occhio a Manuela?” Gridò a Enrico, avviandosi verso il gazebo. Manuela (tre anni) bloccata dalle cinghie del passeggino, guardava i cuginetti più grandi sguazzare in piscina e si sbracciava verso di loro, sporgendosi fin dove le briglie le consentivano.

“Sì, certo. La guardo io,” le rispose il marito dal bordo della vasca.

Cesare accolse la madre e la sorella sotto il gazebo, dove aveva allestito il tavolino coi secchielli di ghiaccio e le bottiglie, e servì i drink. Scambiò con Sveva uno sguardo furtivo, toccando i bicchieri. C’era tra lui e sua madre una tacita complicità a quel riguardo. Erano sempre stati i due membri della famiglia che più l’apprezzavano, ne conoscevano l’utilità. Dopo la morte del marito Sveva aveva passato un periodo in cui quel tipo di risorsa le era stato di grande aiuto. E anche se quella fase s’era conclusa e il consumo di alcolici era un po’ sceso rispetto ai picchi che per qualche mese avevano tenuto in apprensione Fulvia e Lucio – ma non Cesare, che su quel punto era sempre stato molto tollerante; fin d’allora la madre aveva trovato in lui un alleato, all’occorrenza un complice; in qualche occasione un compagno di sbronze – s’era comunque stabilizzato su un livello che il suo medico personale giudicava molto nocivo. Parere che lasciava indifferente Sveva. Lo considerava un nécessaire che una signora di una certa età, vedova e senza più grande interesse per l’ultimo scorcio di tragitto che deve compiere, fa bene a prendere con sé per attraversare senza troppa sofferenza quei luoghi desolati. Luoghi che Cesare, a neanche cinquant’anni, avrebbe dovuto vedere ancora da lontano; ma ci scortava Sveva volentieri, nei momenti di più spinta intimità che condividesse con sua madre dall’epoca in cui lei lo allattava e gli cambiava i pannolini.  

Fulvia sapeva d’essere esclusa da quei brindisi. S’accomodò su una sdraio, in disparte, e dopo aver vuotato il bicchiere si spogliò e raggiunse gli altri in piscina.

Ma poco dopo anche Sveva s’allontanò. Manuela, dal suo passeggino, si sbracciava strattonando le redini che l’imprigionavano e sporgendosi verso la piscina dove giocavano gli altri bambini; finché ruppe silenziosamente in lacrime, il visetto arrossato, lustro di pianto, rattrappito in una smorfia dolorosa.

“Oh, ma certo, povera cara…” la nonna fu la prima ad accorgersene.

Piantò Cesare e la bottiglia e si sfilò la tunica dalla testa, in un unico gesto. Sotto aveva un costume intero, color grigio topo, di un taglio alla moda tra le signore di mezz’età vent’anni prima. Le stava ancora bene, le forme del suo vecchio corpo non s’erano del tutto prosciugate, il tessuto spesso e coprente ne ammorbidiva cavità e spigoli. Andò al passeggino, sciolse Manuela, la prese in braccio e con molta lentezza, ma anche con una certa eleganza – sua madre non riusciva mai a non essere elegante, si disse Cesare, osservandola da sotto il gazebo – entrò in piscina dalla parte dell’ovale a gradoni che accompagnava la discesa in acqua nella zona meno profonda della vasca.

“Manu può fare il bagnetto, Fulvia?” Aveva gridato Sveva alla figlia, che dalla sdraio aveva risposto:

“Certo, mamma. Nella borsa di paglia, in macchina, c’è il suo accappatoio e un ricambio… Enrico, vuoi avvicinarla alla piscina, per favore? Ci penso poi io a cambiarla.”

In braccio alla nonna, Manuela aveva smesso di piangere. Si sporgeva verso l’acqua con innocente meraviglia.

“No cara, non preoccuparti, posso farlo io.” Aveva detto Sveva, e con la nipotina in braccio s’era immersa nella vasca.

Fulvia riabbassò gli occhiali e si distese sul lettino, cercando di cogliere i raggi radenti sopra le cime degli alberi. Lanciò un’occhiata alle cognate, che sfaccendavano in cucina. Quello era il loro campo, non il suo. Non era lei l’asse portante della famiglia.

Era la mezzana, a un’età equidistante dai due fratelli, e forse la più inquieta ed effervescente dei tre. Giornalista televisiva abbastanza nota, spesso in viaggio per lavoro in Italia o all’estero. Di conseguenza, con tre figli di cui una non ancora treenne, toccava principalmente al marito, Enrico, fare la parte del casalingo. Fin dall’inizio della loro storia e poi del loro matrimonio, l’equilibrio di coppia aveva funzionato così. Fulvia era una donna dinamica, assetata di vita, briosa e amante del proprio successo; e s’era sempre abbinata, nel corso della sua vita erotica, a compagni più grigi di lei, accomodanti e spenti, che la lasciassero libera di fare quel che voleva e le assicurassero una certa stabilità e protezione nelle retrovie. Enrico insegnava filosofia in un liceo romano. Era sempre stato lui, dopo le gravidanze di Fulvia, a prendersi cura dei figli, tra congedi parentali e altri permessi di cui era esperto.

Ma se il giornalismo l’impegnava molto, ciò non significa che Fulvia non fosse al tempo stesso una donna pratica e avveduta in affari. Era intimamente venale, nel senso meno ignobile della parola: dava onestamente il loro valore ai soldi – non avendone molti – e alle possibilità che essi aprono. Perciò curava da vicino le proprietà di famiglia, la riserva più cospicua che avesse a tiro. Per eredità paterna possedevano dei terreni in Umbria; dal ramo materno venivano alcune proprietà immobiliari non troppo lontane dal centro di Roma. Fulvia seguiva gli uni e le altre. Era lei, in famiglia, l’amministratrice di patrimoni, per quanto modesti; la sola che avesse il bernoccolo per farlo. Lucio era troppo ragazzo, troppo sventato. Quanto a Cesare, nel suo mestiere d’avvocato aveva dimostrato talento a far soldi, per sé e i suoi clienti; ma più per spirito di conquista che per vera bramosia di denaro. Ed era molto più bravo ad arraffarne che ad amministrarlo. Doti opposte rispetto all’economa ed oculata venalità di Fulvia.

Occasionalmente s’apriva tra lei e il fratello qualche discordia quanto alla gestione dei beni comuni. Questioni d’immobili da vendere o da affittare, servitù agricole, costi di manutenzione. Di rado Fulvia andava in conflitto anche con Sveva, più per ragioni sentimentali. A volte Sveva era riluttante a vendere proprietà cui teneva, benché le offerte fossero vantaggiose; oppure desiderava disfarsi di certi beni anche alla metà del loro valore, semplicemente perché li associava a ricordi penosi. Fulvia vigilava su questi sbandamenti della madre e talvolta trovava in Cesare un alleato contro i suoi capricci. Salvo poi servirsi dell’appoggio di Sveva, quand’era con Cesare che s’innescava il diverbio.

* * *

La spiaggia era visibile dalla terrazza, al primo piano. Di lì lo scenario si ampliava, abbracciando la lunga striscia di sabbia chiara, fino al faro. Una accanto all’altra, affacciate alla ringhiera, Fulvia e Marta si davano una veloce ritoccata al trucco, lanciando qualche occhiata distratta al panorama, prima di tornare giù assieme agli altri. Erano salite a cambiarsi, dopo il tuffo in piscina. Approfittando di quel momento d’intimità, Marta le disse:

“Mi pare che Cesare abbia davvero esagerato, stavolta!”

“Che ci vuoi fare, è un megalomane. Lo è sempre stato. Compensa qualcosa,” rispose Fulvia.

“Beh, stavolta forse anche Anna ci ha messo del suo…”

“Se lo sta lavorando… Ben gli sta. Faccio il tifo per lei.”

“Non dovresti, sei sua sorella…”

“Oh, tanto Cesare casca sempre in piedi. Se anche quella gli fa fuori un po’ di soldi, gliene restano comunque fin troppi… Non che questo lo renda più felice, ma insomma, hanno una bellissima casa…”

“Oh sì! Magnifica.”

Le due donne scesero. Marta, la moglie di Lucio, era una trentacinquenne piacente ma, quanto a bellezza, un paio di tacche al di sotto del marito. Indossava un abito semplice di cotonina bianca che le donava, sulla pelle abbronzata; e aveva raccolto i capelli in un nodo dietro la nuca, fissato da un fermaglio di tartaruga. Raggiunse Anna e l’aiutò ad apparecchiare la lunga tavolata in veranda dove, dopo il bagno in piscina e gli aperitivi sotto il gazebo, avrebbero cenato.

“Sveva a capotavola, cara?”

“Sì, certo,” le rispose Anna. “E Cesare accanto alla mamma. Dall’altra parte mettiamo Fulvia, col seggiolone di Manuela accanto.”

“Oh, hai un seggiolone…”

“Sì ne ho preso uno…  Faremo certo altre cene, l’estate è lunga.”

“Sicuro. Beh, spero sia di buon augurio.”

Dodici coperti. Concordò la disposizione dei posti con Anna, scambiando rapidi sguardi a distanza, e piazzò con sicurezza bicchieri, piatti, posate, tovaglioli e centrini ornamentali. Si soffermò giusto un attimo a contemplare l’opera. La tavola aveva un aspetto molto curato. Marta ci teneva, a questo genere di cose.

E Anna ci teneva molto a intendersi con lei. Ammirava quel suo modo di ‘fare casa’ ovunque si trovasse. Marta non era mai sola, si tramutava dappertutto nel centro di gravità della piccola comunità che ruotava attorno a lei. Una naturale forza d’attrazione che bastava a se stessa, non cercava riconoscimenti né contemplava altri fini al di fuori del limitato orizzonte del suo esercizio.

Oddio, veramente un riconoscimento – uno solo – Anna cominciava a pretenderlo. Stava con Cesare ormai da due anni. Aveva rimesso ordine nella sua vita (quella di lui). Era ora di cominciare a darsi degli obiettivi. Uno l’aveva appena ottenuto: quella villa al mare, in una nota località del litorale romano dove anche Sveva, Lucio e Fulvia – cioè tutta la famiglia – avevano casa. Era una sua conquista. Aveva convinto Cesare, che aveva sempre detestato quel genere di posti, ad acquistarne una. Il secondo obiettivo non era il matrimonio. No, non ancora (Cesare, che era già stato sposato, aveva ben chiarito questo punto). Prima c’era altro, assai più importante e a portata di mano. Anna aveva ormai trentott’anni e nessun figlio.

Anche su questo, in verità, Cesare era stato abbastanza chiaro. Ma Anna ci avrebbe lavorato. Anzi ci stava già lavorando da un pezzo, da quando Cesare nemmeno se lo sognava. Il seggiolone era un segnale eloquente. Malgrado s’avviasse ormai ai quaranta, era ancora convinta che non vi sia niente d’irremovibile in simili resistenze da parte di un uomo. E aveva diverse frecce al suo arco. L’appoggio di Marta, che considerava la sua principale alleata in famiglia. E contava anche su Sveva, la matriarca. In effetti, dei suoi tre figli, Cesare era il solo che non le avesse dato nipoti.

* * *

La nuova casa di Cesare (ma casa è una definizione riduttiva, era un autentico villone: una costruzione anni ’60 su due piani, ben conservata e con le facciate esterne a cortina, quasi quattrocento metri quadri coperti, con un quarto d’ettaro di giardino intorno) s’era di recente arricchita di quella nuova attrattiva. Principalmente per desiderio di Anna, nell’angolo più esposto a sud del terreno avevano fatto installare la piscina. A sfioro, dodici metri per sei, con piattaforma prendisole pavimentata in travertino, per metà coperta da un gazebo leggero di tela bianca, le sdraio, i lettini e i tavolini per gli aperitivi disseminati in giro. Era per inaugurarla e presentarla in famiglia che era stata organizzata la festa.

Veramente, quella casa Cesare la sentiva un po’ un guscio estraneo che Anna gli aveva calato addosso. Se ne stava in piedi sotto il gazebo, col suo bicchiere in mano e l’irritabilità che andava via via crescendo. “Manu può fare il bagnetto, Fulvia?” “Certo, mamma, ci penso poi io a cambiarla…” Come fare a non trovare irritante la melassa di quelle battute, quel vuoto cinguettìo familiare. Pensare cose sgradevoli e dirle più spesso del consentito era una sua specialità.

Tutti gli altri s’erano allontanati, nel frattempo. Lucio era ancora a mollo, non la finiva più di giocare coi ragazzini. Era il loro beniamino, il maschio adulto più benvoluto di casa. Un fascino naturale di cui Cesare quand’era sbronzo sentiva parecchio il peso. Forse gliel’avrebbe alleviato un po’ sapere ch’era pura apparenza, una mano di vernice. Panni che Lucio aveva indossato con ben altro spirito vent’anni prima. Gli erano rimasti addosso, solo un po’ logori, un po’ irrigiditi, come abiti smessi.

Sveva era uscita dall’acqua con Manuela in braccio e ora la cambiava su un lettino a bordo vasca. Manuela, manipolata dalla nonna, rideva felice.

Fuori dalla vasca, Lucio disse a Fulvia:

“Davvero eccessivo, non trovi? Una piscina così… Ma non lo vede da solo, che è fuori luogo? Non siamo mica a Hollywood, che vuol dimostrare?”

“Oh, forse solo che può permettersi cose che noi non avremo mai, credo… Ma che lui è tanto generoso da farci usare.”

“Questa è pura cattiveria, non so se se la merita…”

“Certo. E putroppo non gli servirà a niente.”

Quel piccolo specchio d’acqua nei progetti di Anna sarebbe stato il centro dell’estate in famiglia.

Lì attorno si consumava qualcosa che non lo riguardava, pensò Cesare, buttando giù un altro drink. Non gli importava quel che Lucio e Fulvia pensavano. Lo preoccupavano di più i maneggi della sorella sull’eredità e quelli di Anna sulla casa e il resto. Sospetti che prendevano corpo soprattutto quando alzava un po’ il gomito.

Anna, poi, non era neppure sua moglie. Solo la sua più recente compagna. S’era inserita un po’ a forza in famiglia e lo infastidiva il modo sottilmente subdolo in cui v’era riuscita. L’aveva presentata alla madre e ai fratelli e poi portata un paio di volte in casa. E a poco a poco, quasi a sua insaputa, quella s’era piazzata… Adesso se la ritrovava amica intima di Marta e in rapporti fastidiosamente confidenziali con Lucio e Fulvia. Ci si trovava ormai più a suo agio di lui. Non che ci volesse molto, si disse Cesare, finendo di vuotare il bicchiere… In questo almeno Sveva – con cui quand’erano un po’ su di giri se la ridevano assieme – avrebbe dovuto essergli alleata. Non solo perché apprezzava l’alcol quanto lui. Ma anche perché la sua gelosia di madre avrebbe dovuto contrapporsi naturalmente alla crescente invadenza di quell’intrusa.

Si versò un altro bicchiere. Ne erano bastati tre o quattro e già il suo malumore s’avvicinava al livello di guardia. Quella soglia oltre la quale, come provava qualche recente episodio, rischiava di perdere il controllo. Per questo Anna vigilava su di lui tanto odiosamente.

Anna, dalla veranda, chiamò a raccolta le truppe.

“Tra mezz’ora metto in tavola!” gridò. “Ultimi drink, ultimi tuffi in piscina!”

Cesare conviveva con lei da ormai due anni. Era stata la sua zattera di salvataggio, dopo il naufragio del suo primo matrimonio. Lavoravano nello stesso studio, una delle maggiori associazioni legali romane. Avvocato anche lei, ma certo non sul suo stesso piano. Cesare era uno dei soci di spicco dello studio, Anna s’accontentava del suo ruolo di grigio travet cui affidare compiti di routine. A casa però era diverso. Lì, sempre più, era Anna a prendere il sopravvento. E questo Cesare non lo sopportava.

S’era fatto un nome nelle aule dei tribunali. Seguiva soprattutto contenziosi d’affari. Difendeva in giudizio aggressive imprese, generalmente impegnate in cause milionarie contro committenti pubblici. E passava per un bel pirata, uno che sa come affondare quei barocchi galeoni comandati in genere da capitani paurosi e incompetenti e difesi dalle antiquate batterie messe in campo da avvocaticchi di bassa lega. Una veloce guerra da corsa, questo era il modello che Cesare proponeva ai suoi clienti nei loro rapporti con le pubbliche amministrazioni. E il suo approccio aveva arricchito sia lui che le fameliche società che gli affidavano le loro cause.

Ma il lavoro era il solo campo il cui quell’approccio avesse pagato. Non in famiglia, né in altre zone del suo privato. Disseminate di rottami. Anche con Anna le cose andavano prendendo una brutta piega.

Il suo precedente matrimonio era colato a picco dopo appena due anni sulla questione figli. Lui avrebbe preferito non averne, ma accettò lealmente di fare la sua parte, in principio; però quando venne fuori che era Laura a non poter restare naturalmente incinta, non riuscì a non considerare la questione chiusa. Rifiutò di ricorrere a qualunque mezzo surrogato e questo segnò la fine del rapporto. Non una conseguenza che avesse calcolato, né l’aveva coscientemente desiderata; ma non trovò – né dentro di sé né in lei – valide ragioni per opporvisi. In realtà, non gli importava molto di sua moglie. Non gli importava di nessuno, in fondo neanche di se stesso. Quindi, tutto sommato, faceva bene a non volere figli.

Dopo la separazione (che fu ruvida e litigiosa, con Laura) era uscito un paio di volte con quella piacente, benché scialba, procuratrice di studio, quell’Anna. E poi s’era attaccato a lei. Non che ne avesse davvero bisogno o che temesse più di tanto la solitudine; che anzi, visto il tipo che era, sarebbe forse stata la sua condizione naturale. Ma c’erano cose per lui importanti che riuscivano meglio in coppia. I viaggi. I week-end in giro per l’Italia. Le cene in buoni ristoranti. Le escursioni in montagna e lo sci. Le crociere in barca (possedeva una discreta barca, ormeggiata in un porticciolo del litorale laziale). Per questi svaghi aveva bisogno di una compagna. E non era affatto il tipo del donnaiolo che si procura facilmente relazioni femminili e le cambia spesso. No, ciò di cui aveva bisogno era una compagna fissa, anche poco brillante purché non invadente, capace di condividere sia pur senza slanci le sue abitudini; e che in più lo soddisfasse a letto. E dopo le prime uscite, credette di aver trovato in Anna tutto ciò.

Ma adesso quella avanzava delle pretese… A un tratto, aveva come cambiato passo. Questo l’aveva un po’ confuso, faticava a starle dietro. La villa, il seggiolone… Cesare si poneva delle domande sui suoi rapporti con le donne: sono loro che, a un tratto, gettano la maschera; oppure sono le situazioni che, di per se stesse, producono un interno logorìo che altera gli assetti, inverte i rapporti di forza…

* * *

Da sotto il gazebo, vide che la piscina s’era ormai svuotata e la tavola era apparecchiata. S’avvicinava l’ora della cena. Avrebbe dovuto occuparsi della griglia. S’avviò verso la piccola costruzione bifronte, in tegole e cotto, che a distanza antifumo dalla veranda aveva su un lato il forno a legna e su quello opposto la griglia. Aveva già messo a fare la brace. La sparse, stendendola bene sul fondo e livellandola con quella specie di mini-rastrello che s’era procurato apposta. Piazzò la griglia, aspettò che la brace si raffreddasse un poco prima di mettervi su la carne, e intanto andò a prendere i vassoi di costate, spiedini e salsicce, la ciotola d’olio, i condimenti vari e il pennello per spanderli.

Gli altri prendevano posto, intanto. Sveva a un capo della tavolata, i ragazzini all’estremo opposto. Enrico spinse il passeggino fin lì e piazzò Manuela nel seggiolone. Lucio e Marta si accomodarono. Anna stava per arrivare col carrello degli antipasti.

La località del party in famiglia – un banale aperitivo con grigliata – era una tranquilla cittadina del litorale dove da circa una generazione e mezza tutti i membri della famiglia avevano fissato la loro residenza estiva. Aveva cominciato la generazione anteriore, Sveva e Aldo, quarant’anni fa; ed era stata emulata da tutti i figli, via via negli anni. Ultimo – solo di recente, dopo essersi messo con Anna – Cesare, con la villa più grande e più bella.

Veramente, quel tipo di seconde case da diverso tempo ormai non andava più. Quando per primi ne avevano acquistata una, Sveva e Aldo, nei lontani anni Settanta, la villetta al mare nelle vicinanze della città aveva un senso. Allora le vacanze estive erano lunghe, le donne perlopiù casalinghe e l’assetto tipico della famiglia medio-borghese in periodo estivo prevedeva moglie e figli al mare a tiro di macchina dalla città, coi mariti che facevano la spola – quotidiana o solo nei weekend, a seconda degli impegni di lavoro – tra Roma e il suo litorale. A quell’epoca Sveva e Aldo – ingegnere, alla data di questo racconto morto ormai da una decina d’anni – scelsero quella cittadina, tra le numerose molto simili che punteggiavano la costa.

Cesare aveva sempre odiato quei posti, se n’era tenuto alla larga per tutta la vita. Finché era arrivata Anna a fargli cambiare idea.

Nonostante i drink e un momento iniziale di stordimento – nel corso del quale aveva inopportunamente aperto la valvola della sua irritabilità – Cesare aveva poi, nel seguito della serata, recuperato un assetto decoroso. Quasi simpatico, si poteva dire. Ora era al barbecue e si dava da fare con salsicce e bistecche. Le ultime da arrostire, aveva già sfamato l’intera tavolata.

Fu quasi alla fine della cena, quando ormai della sua grigliata – una delle migliori da diverso tempo in qua, a detta di tutti – restavano solo gli avanzi e Anna s’accingeva a tirar fuori dal frigo la torta gelato; e dopo che, consumata velocemente la loro razione di dolce, i ragazzi ottennero il permesso di andare fino alla spiaggia; fu allora che, rimasti soli, gli adulti si rilassarono. Furono accese sigarette – da qualche tempo bandite, quando c’erano figli in giro – e un po’ allentato il controllo sul linguaggio. Poi Fulvia lanciò sulla tavola quel pomo della discordia.

“Sapete,” disse. “Ho ricevuto una buona offerta per l’appartamento di Via Nizza.”

Silenzio.

“Ma non è affittato?” Disse Cesare.

“Sì,” disse Fulvia. “Ma il contratto è in scadenza. Lo studio di commercialisti che l’occupa vorrebbe comprarlo. Hanno fatto una proposta interessante.”

Silenzio. Via Nizza era la più importante delle proprietà immobiliari comuni. La grande casa all’attico di un bel palazzo affacciato su Villa Albani, dove per quarant’anni la famiglia aveva abitato. Per Cesare, Fulvia e Lucio era stata la casa dell’infanzia, dell’adolescenza e della prima giovinezza, fin quando, terminata l’università, ciascuno aveva preso la sua strada. Poi Sveva e Aldo vi avevano vissuto ancora per un pezzo, in quell’appartamento ormai troppo grande dove l’intera famiglia si riuniva in occasione di compleanni, Natali, anniversari, e in cui continuavano ad accumularsi ricordi su ricordi. Poi Aldo era morto e Sveva non se l’era più sentita di restare lì. Aveva venduto una parte dei titoli in cui erano investiti i loro risparmi e qualche proprietà immobiliare minore, e aveva acquistato un appartamento più piccolo, grossomodo nello stesso quartiere, ma appena un po’ decentrato, un filo discosto rispetto alle abitudini di una vita. Un leggero spostamento di cui il suo equilibrio interiore aveva bisogno.

“Ma non avevamo detto che quella casa non l’avremmo venduta fino a quando…” disse inopinatamente Lucio, che forse aveva bevuto un po’ troppo anche lui. E subito s’interruppe, mordendosi la lingua.

Seguì del silenzio.

“Fino a quando…?” Disse Sveva.

Silenzio.

“Finché non fossi morta io?” Chiese con un sorriso, portando il bicchiere di vino da dessert alle labbra. Lo vuotò. Era pieno. “Questo avevate concordato tra voi, cari?” Disse, con dolcezza signorile, guardando i figli. Si versò un altro bicchiere. Lo vuotò. Cesare cercò di spezzare quell’invadente silenzio.

“Ma no, mamma, finché le condizioni di mercato non torneranno ad essere un po’ migliori… Lo sanno tutti che il settore immobiliare, oggi…”

Fulvia fu pronta a cogliere quel diversivo.

“Esatto. E’ quel che abbiamo sempre detto. Non c’è nessuna urgenza di vendere, oggi, a condizioni non convenienti… Ma questa proposta a parer mio cambia le cose. Proprio perché l’occupa già, la ditta che l’ha in affitto ha un interesse commerciale diverso… L’offerta che hanno fatto è molto buona. Dovremmo parlarne.”

“Certo cara, parliamone… Ma non stasera,” disse Sveva. La sua voce suonava esausta, fievole, come proveniente da più lontano che da capotavola.

“No, certo. Era solo per informarvene… Ma ho fatto male a introdurre il tema,” disse saggiamente Fulvia. “Ne riparliamo a Roma, in un’altra occasione.”

“Sì, mai parlare d’affari a tavola, nelle cene in famiglia,” buttò lì Marta.

“Sono d’accordo,” disse Enrico.

“Anch’io. Qualcuno vuole un altro po’ di dessert?” Disse Anna, offrendo il piatto con la torta gelato.

“O del vino?” Disse Cesare. Stava stappando un’altra bottiglia di passito.

“Mi pare che di vino ne abbiamo avuto abbastanza,” disse Lucio.

“Beh, io un altro bicchiere lo bevo,” disse Sveva, porgendo il calice a Cesare “Dov’è Manuela?” Aggiunse, alzandosi improvvisamente in piedi.

“Ma è lì, nel passeggino,” disse Enrico.

“No, non c’è…” disse Fulvia. S’era alzata e accostata al passeggino, che era stato parcheggiato a una decina di metri di distanza, su in veranda, in una zona d’ombra dove la bambina avrebbe potuto dormire tranquilla. Ma non dormiva. Non lì, almeno. Le cinghie del seggiolino erano sciolte, la copertina buttata in terra.

“Non è possibile…” Disse Enrico. “Non può essersi sciolta da sola.”

“Sei sicuro d’averla legata bene?” Disse Cesare.

“Certo,” rispose Enrico, con stizza.

“Beh, non può essere lontana,” disse Anna. “Ora conta trovarla.”

Le uniche che non parlarono furono Sveva – che s’alzò, muta e barcollante per l’alcol che aveva in corpo, e s’allontanò di qualche passo da tavola guardandosi ansiosamente intorno – e Fulvia, ch’era impallidita; per un breve istante restò inchiodata accanto al passeggino, incapace di muoversi; poi lo fece, corse verso il gazebo dove aveva lasciato la borsa dei ricambi di Manuela con tutti i suoi giochi e i suoi pupazzi. Ma non era la direzione giusta.

Sveva, invece, nel suo equilibrio instabile e con l’andatura irrigidita, si diresse dalla parte opposta, verso la piscina.    

* * *

Fu il suo urlo staziante a rompere il silenzio, che poi di nuovo calò. Svoltato l’angolo della veranda, verso la parte del giardino che dava sulla piscina, al centro dello specchio d’acqua azzurro e lucente si compose l’immagine di Sveva, grondante, in piedi dentro la vasca con quell’inerte corpicino in braccio.


Nelle illustrazioni, alcuni celebri quadri di David Hockney.

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