Marco Rinaldi
Parole e ombre/19

Bastardo

«Dopo qualche tempo, cominciai a provare per Katia un’inspiegabile attrazione, che crebbe fino a diventare incontenibile, e soffocare definitivamente il mio interesse per la bella Marta»

Immagine di Lucio Inserra

Tutto, come per tutti, è cominciato nella culla, o poco dopo.

Non sono mai stato innamorato di mia madre. Certo, all’inizio, come tutti i bambini, c’era solo lei, non capivo neanche dove lei finisse e cominciassi io, mi era indispensabile, eccetera eccetera. Poi, però, poco a poco mi sono accorto di lui, mio padre, e fu una rivelazione. Era forte, bello, simpatico, sicuro di sé. E assente. Amava lei, non me. Non c’era verso di attirarlo a me, non quanto avrei voluto.

È certamente lì, che il mio tronco ha iniziato a torcersi.

Ho conquistato mia madre, l’ho sedotta, non era difficile, solo per vedere com’era l’amore di chi amava lui, e che lui amava. Ho perso ogni interesse per lei intorno ai dieci-dodici anni, quando ho capito che lui non l’amava più. Lei, per salvarsi, cercava inutilmente di aggrapparsi a me, mentre io inseguivo inutilmente lui. 

Io e Luca avevamo più o meno diciott’anni. Amici per la pelle da quando ne avevamo otto, facevamo tutto insieme, ed era sempre lui a decidere cosa, come e quando. Luca decise che Marta, fisico da modella, un musetto da mangiare, intelligente e spiritosa, era la ragazza giusta per me, e fece di tutto perché ci mettessimo insieme. Io, in cambio, l’aiutai a concludere con Katia, una brunetta un po’ mascolina, poche tette e naso grande che, chissà perché, a Luca piaceva da impazzire. Noi quattro eravamo inseparabili, cinema, pizza, disco, gite, tutto insieme. Marta mi piaceva, ma non ero innamorato di lei quanto Luca, invece, lo era di Katia. Mi parlava continuamente di lei, mi raccontava per filo e per segno cosa si dicevano e, soprattutto, cosa si facevano.

Dopo qualche tempo, cominciai a provare per Katia un’inspiegabile attrazione, che crebbe fino a diventare incontenibile, e soffocare definitivamente il mio interesse per la bella Marta. A Luca volevo il bene di sempre, come sempre lo stimavo, lo temevo, mi divertiva. Tutto come prima, eppure non provavo nessun imbarazzo nel cercare di portarmi a letto la sua ragazza, con una determinazione, e un’ipocrisia mai sperimentate prima. Katia non resisté più di tanto al fascino della apocalittica, inconfessabile trasgressione di farsi scopare dall’amico del cuore del suo ragazzo. La cosa durò fin quando Luca la lasciò per Laura. “Sei un bastardo!” mi urlò Katia quando le confessai la verità: non mi era mai piaciuta.

Di Laura, bionda, occhi verdi, sempre in sella sua Yamaha da cross, non ebbi il tempo di incapricciarmi, perché quell’estate, a Fregene, avevo conosciuto Claudio.

Lui, un paio d’anni più grande di me, studente di psicologia, era esattamente il ragazzo che avrei voluto essere io, allegro, determinato, curioso, generoso. Un leader. Poco a poco, la simpatia e la confidenza nate tra noi fin dall’inizio offuscarono l’affetto e la puerile soggezione che mi legavano a Luca.

Ammiravo Claudio, mi sembrava di conoscerlo da sempre, e avrei dato qualsiasi cosa perché la nostra amicizia non finisse mai.

Claudio e Livia si amavano alla follia, stavano sempre appiccicati, parlavano, ridevano, si sbaciucchiavano, lei cantava e lui l’accompagnava alla chitarra. Quando eravamo in gruppo, si cercavano continuamente con lo sguardo per scambiarsi un cenno d’intesa. Vederli era così emozionante che cominciai anch’io a cercare, e dopo un po’ a trovare, lo sguardo di Livia. Poi qualche parola, un sorriso, una mano che sfiora, poi un’altra. Finita l’estate, l’aspettai sotto casa. Non ci fu bisogno di dire niente, neppure che, anche se in modo diverso, amavamo entrambi Claudio, e non l’avremmo mai lasciato. Fu lui a lasciare noi quando si accorse dell’inganno. Nonostante l’affetto profondo, l’intimità che ci legava, e le riflessioni che avevamo condiviso per mesi sulla complessità dell’animo umano, non riuscii a convincerlo che scopando Livia volevo solo un pezzetto del suo mondo, che tra me e lei non c’era niente che lo escludesse, lui era al centro di tutto. “Sei solo un bastardo!” fu la sua conclusione, prima di sparire per sempre. Senza Claudio, io e Livia non avevamo niente da dirci.

E fu così con Fabio, Stefano, Maurizio, amici preziosi, e con le loro donne, di cui non ricordo neanche il nome.

“Sei proprio un bastardo!”, mi dissi dopo essermi ritrovato solo come un cane e con la faccia gonfia per le mazzate che mi aveva dato Pietro, uomo meraviglioso, poeta e scrittore, il mio più caro amico del momento. Aveva appena scoperto che me la facevo da mesi con Yves, il suo adorato compagno, nonostante la mia reale e dichiarata avversione per il cazzo e tutto quello che c’è intorno.

Non poteva andare avanti così, le persone che più amavo e stimavo se ne andavano una alla volta dalla mia vita. Ce la misi tutta, per fare pulizia in tutto quel disordine. Evitai per anni di stringere vere amicizie, e provai a concentrare il mio desiderio su donne sole, insoddisfatte, da portar via a qualcuno di ignoto, antipatico o indifferente. Niente da fare, le mie emozioni sembravano sopite per sempre.

Dopo anni di psicanalisi, meditazione trascendentale, e ogni sorta di psicoterapie vidi i primi risultati: stavo diventando un uomo diverso, consapevole, leale, addirittura severo. E solo. Completamente solo. Ma soprattutto triste. Non facevo che piangere, senza motivi apparenti. Come una fata cattiva, la tristezza mi prese per mano e mi portò giù, sempre più giù, fino all’orlo del baratro.

Poi arrivò Lucilla, e capii tutto.

Capii che se uno nasce storto perché il suo seme è stato piantato male, o perché il vento lo piega appena spuntato dalla terra, non è detto che abbia la forza per cambiare davvero, né che gli convenga.

“Sei proprio bastardo”. Me lo dico ancora, certo, ma adesso mi viene da ridere. Rido degli scrupoli che avevo da ragazzo nell’insidiare i fragili amori di amici carissimi, ai quali mi legavano affetto, interessi, emozioni, allegria. Rido se penso alle coppie che facevo scoppiare come palloncini, e a quella poveretta di mia madre che pensava di sostituire il marito con un figlio, e si è ritrovata in mezzo a uno sconfinato deserto.

E mi beo, invece, se penso all’intensità degli amori aggrovigliati uno nell’altro, all’estasi di rubare nelle case amiche di cui ho la chiave. Tutto così sincero e così infame, così pulito e così deliziosamente guasto.

“Ma ti rendi conto di quanto sei bastardo?”, mi dice adesso Lucilla. Mi piace, Lucilla. Ha la mia età.

Ogni tanto solleva la testa, mi guarda, scuote la testa, sorride, e mi ripete: “Che bastardo!” due, tre volte al massimo, poi lascia esplodere la mia festa in fondo alla sua gola. È così da qualche anno. Sempre uguale e sempre diverso. Adesso però, Lucilla è più allegra, docile, ingorda.

Lei e papà aspettano una bambina.


Marco Rinaldi. Ingegnere, dirigente d’azienda, giramondo, vive tra l’Italia e la Polonia, dopo aver vissuto in Algeria e a Cuba. Un paio di volte al mese ospita nella sua casa di Roma concerti jazz. Sposato, due figlie, un nipote. Già autore di due romanzi, il primo, Non voglio bene a nessuno, uscito con Alter Ego edizioni e il secondo, Il grande Grabski, uscito con Fazi editore.


Lucio Inserra. Nato a Benevento il 14-12-1977. Fotografo, video-maker, montagista. Appassionato sin da giovanissimo alla fotografia, entra da subito nel mondo della fotografia professionale. Avendo lavorato sin dall’inizio con la pellicola, conserva questa passione anche nell’era del digitale. Fonda il circolo “Officine della Luce”, di cui è Presidente, allo scopo di diffondere la cultura fotografica. Insegna fotografia e cultura visiva in ambiti associativi dal 2005. Approfondisce negli anni la ricerca fotografica artistica nella quale è a tutt’oggi impegnato.

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