Roberto Verrastro
A proposito di “Albanian Mafia Wars”

I narcos albanesi

John Lucas, giornalista investigativo inglese, ha ricostruito la storia recente della mafia albanese: dalla militanza nei servizi segreti di Enver Hoxha al patto con la 'ndrangheta e la malavita colombiana. Nel nome del traffico di droga

L’unità speciale si chiamava 101K. Negli anni Sessanta era una sezione della Sigurimi, i servizi segreti dell’Albania comunista di Enver Hoxha che, con il consenso del regime, collaborava con i gruppi mafiosi italiani che contrabbandavano sigarette attraverso il mare Adriatico. L’unità 101K sorvegliava lo stoccaggio e la distribuzione del tabacco, che approdava in un magazzino nei pressi del porto albanese di Durazzo. L’ideologia ufficiale dipingeva simili collusioni come un’arma per combattere i nemici capitalisti dell’Albania, privando dei loro profitti le compagnie occidentali del settore e rimediando al fatto che il mercato interno non poteva soddisfare la domanda di sigarette. La realtà era un’altra: affari illeciti con l’alibi dell’ideologia. “I dossier dell’intelligence belga affermarono che la mafia italiana aveva restituito al governo albanese almeno 22milioni di dollari in un solo anno, denaro contante che agevolò l’acquisto di una flotta di elicotteri Alouette negli anni Ottanta. C’erano indicazioni che lo Stato albanese stesso fosse implicato nella coltivazione e nell’esportazione dei papaveri da oppio”. Quelli necessari alla produzione di eroina.

Il peggio doveva ancora venire. Ed è rievocato subito dopo questa premessa storica in un libro del giornalista investigativo britannico John Lucas: Albanian Mafia Wars, “L’ascesa dei narcos più letali d’Europa” (Aberfeldy, 247 pp., 10,19 euro, ebook 3,64 euro). “Mentre la morte del dittatore nell’aprile del 1985 preannunciava un periodo di liberalizzazione sociale e politica, culminato nelle prime elezioni libere del 1991, la debolezza del nascente sistema democratico gettò presto il Paese nell’illegalità. L’avvento della democrazia portò alla rapida dissoluzione della Sigurimi e della 101K. La conseguenza imprevista è stata che molti ex agenti di entrambi i gruppi ora erano liberi di immergersi completamente nel mondo della criminalità organizzata. Una progressione naturale per loro, essendo stati coinvolti nel contrabbando di sigarette in Albania, e forse droga all’estero, per molti anni”. L’Albania odierna ha poco meno di tre milioni di abitanti, ma si valuta che altri otto milioni di albanesi etnici vivano nei Paesi confinanti e in quelli occidentali, “facilitando la crescita di una mafia globale come nessun’altra”, scrive Lucas nel primo dei 24 capitoli (Sangue e onore).

Secondo analisi avallate dall’FBI, esisterebbero una ventina di clan criminali albanesi, detti fares. Ognuno di loro è rafforzato da vincoli familiari, che permettono di riconoscere al volo eventuali intrusi, ostacolando così l’infiltrazione di informatori, ed è fondato sull’idea consuetudinaria albanese di besa (fiducia), perno di un codice d’onore riassunto dal motto: “Quando un albanese ti dà la sua parola, ti dà suo figlio”. Ogni clan può avere migliaia di affiliati sparsi nel mondo, ma è guidato da un piccolo consiglio direttivo noto come Bajrak, e si articola in sottogruppi agli ordini di un Krye, un boss, coadiuvato da un vice, il Kryetar, che a sua volta comanda un Mik, un amico, quest’ultimo un anello di collegamento tra i vertici e i sottoposti, che è meglio non definire manovalanza. “I gangster albanesi dicono che il senso dell’onore impedisce loro di ricevere ordini. I rapporti criminali sono paritari, e quando un cosiddetto boss prende decisioni, le istruzioni di solito sono date con rispetto, per evitare di offendere gli altri”, spiega Lucas.

Si tratta di atteggiamenti ispirati dal Kanun di Lek Dukagjini, un principe medievale che codificò per gli albanesi centinaia di regole di vita, soppresse durante il comunismo ma riemerse negli anni Novanta, specialmente nel nord del Paese, a opera dell’etnia dei Gheghi, dominante ai tempi del regime di Hoxha (alcune stime indicano in 25mila i dissidenti uccisi), mentre quella meridionale dei Toschi è tradizionalmente insofferente all’autorità. Per il Kanun, “che non è affatto un codice di comportamento strettamente criminale”, sottolinea Lucas, la reputazione personale di affidabilità è tutto e, se viene meno, l’esito è la violenza estrema, che uccide a suon di decapitazioni, dinamite ed esecuzioni fulminee in pubblico. Come quella riservata il 22 marzo del 2019 all’avvocato 50enne Ravik Gurra che, dopo essersi trasferito dall’Albania a Londra nel 1998 per studiarvi giurisprudenza, risiedeva con la moglie e due figlie adolescenti a circa venti miglia dalla capitale, a Harpenden, nella contea dell’Hertfordshire. Il giorno del delitto, rimasto finora irrisolto, Gurra si trovava invece nella città albanese di Elbasan, seduto all’esterno di un bar, dove fu freddato da tre colpi di pistola alla testa sparati con il silenziatore. Gli amici al tavolo con lui lo videro accasciarsi in un attimo e pensarono a un attacco di cuore. Realizzarono di aver appena assistito a un omicidio solo quando sentirono sgommare l’auto dei killer in fuga. Il legale era stato il difensore di alcuni esponenti della malavita locale, ai quali non era riuscito a evitare condanne pesanti.

Nipote del defunto dittatore, Ermal Hoxha è noto alle cronache anche per la sua relazione con la cantante albanese Rezarta Shkurta, ricorda Lucas nel diciannovesimo capitolo del volume (Colombian connection). L’operazione che lo inguaiò partì da un’indagine della polizia tedesca, che da tempo teneva d’occhio Ilir Hyseni, che faceva la spola dalla Germania, dove viveva la sua amante, a Elbasan, nei cui paraggi il 14 gennaio del 2015 la polizia albanese fece irruzione in un laboratorio specializzato nell’estrazione di cocaina nascosta nel cemento, cogliendo in flagrante, oltre a Hyseni, due colombiani, Cezar Avila e Valter Moreno. Furono sequestrati 120 chili di stupefacente e ammanettate otto persone, compreso Ermal Hoxha, che era stato filmato in quel laboratorio e che, secondo l’accusa, era il principale finanziatore del sodalizio, mentre Hyseni ne avrebbe supervisionato i traffici tra il Sud America, l’Albania e l’Europa occidentale. Ermal Hoxha si procurò dieci anni di carcere in seguito ridotti a sei e otto mesi, ed è stato rilasciato nel settembre del 2018, dopo aver scontato meno di due anni di reclusione. Il resto della pena è stato sospeso.

Epilogo: lockdown è la conclusione di un libro inchiesta che annovera tra le sue fonti il Dipartimento di Giustizia statunitense, la National Crime Agency britannica e testimoni citati sotto pseudonimo. Le restrizioni alla libertà di movimento imposte dalla pandemia da coronavirus hanno causato ai narcos albanesi, che spesso trattano la cocaina nei laboratori in patria ma agiscono a stretto contatto con la ‘ndrangheta, problemi logistici con i carichi in arrivo dal Sud America, “le cui rotte verso l’Italia sono state parzialmente chiuse e reindirizzate in Spagna”. Ora più che mai qualsiasi percorso abbreviato riduce il rischio di intoppi. La pandemia ha inoltre prodotto in Albania un controverso disegno di legge annunciato all’inizio di marzo e arenatosi nei mesi successivi, che prevedeva un’amnistia finanziaria che, dal 1° gennaio al 31 dicembre 2021, avrebbe consentito a individui e imprese operanti nell’economia sommersa (nel Paese rappresenta fino al 50 per cento del PIL), di depositare in banca i loro guadagni pagando una tassa, senza troppe domande sull’origine del denaro. Benché dal provvedimento fossero ovviamente esclusi sospetti o accertati appartenenti a organizzazioni mafiose e terroristiche, “è facile notare come anche i narcos condannati potrebbero servirsi di complici incensurati per lavare i loro contanti. I critici hanno evidenziato che l’amnistia potrebbe diventare un sistema di riciclaggio gestito di fatto dallo Stato stesso”.

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