Pier Mario Fasanotti
A proposito di “Processo alla Russia“

Dalla parte degli zar

Sergio Romano ripercorre la storia della Russia, così piena di ambizioni sfrenate, violenze e tentativi di agganciarsi all'Europa. Un modo per inserire la figura di Putin tra Ivan il Terribile e Pietro il Grande

La domanda, duplice, non è di poco conto: «Perché continuiamo a considerare la Russia un Paese estraneo, diverso e in opposizione a “noi” europei?». E ancora: «Che cosa porta l’Europa a vedere nella Russia una civiltà nemica e separata?».  Le risposte le fornisce Sergio Romano nel saggio Processo alla Russia (un racconto), edito dalla Longanesi (191 pagine, 18,60 Euro).

Va subito detto che l’autore, editorialista e scrittore, già ambasciatore alla Nato e, dal settembre 1985 al marzo1989, a Mosca, nella precisa ricostruzione storica dell’immenso territorio che sta a est dell’Europa, manifesta nelle pagine finali una schietta simpatia per Vladimir Putin e al contempo la speranza che il paese di Tolstoj (ma anche dei massacri, delle carestie, dei processi-farsa e delle torture) migliori i rapporti con le nazioni-bandiera della Ue. Si augura, inoltre, che il vecchio continente tragga beneficio economico, soprattutto in tempi di contesa cino-americana.

Le domande di Sergio Romano si capiscono meglio se leggiamo attentamente quanto egli scrive nella prima parte del suo libro, descrivendo ed esaminando temi, conflitti e figure che fanno comprendere meglio il presente. Nel 1843 comparve nelle librerie di Bruxelles il libro del nobile francese, il marchese Astolphe de Custine, intitolato La Russia nel 1839. Ebbe un grande successo, soprattutto quando, da dopo la rovinosa ritirata di Napoleone, la Russia faceva sforzi enormi per essere considerata una grande potenza mondiale. Un libro forse datato, ma che è il punto di partenza per una disamina del “complesso” di Mosca. Il marchese de Custine aveva perso il padre e il nonno sotto la ghigliottina. Uomo curioso, di considerevole cultura, divenne diplomatico (accompagnò quel maestro del camaleontismo che fu Charles Talleyrand al Congresso di Vienna nel 1815) e assiduo frequentatore di numerosi salotti letterari, compreso ovviamente quello di Madame de Stael. Sposò una nobildonna, ebbe un figlio, ma, come omosessuale, trascorse il resto della sua vita con un amico inglese.

Il saggio-reportage fu scritto a seguito a lunghi soggiorni in Russia, e si ispira al molto più famoso La Democrazia in America di Alexis de Tocqueville. Il libro, nella sua parte finale, conteneva una sorta di profezia: «Vi sono oggi nel mondo due grandi nazioni che sono partite da punti diversi, ma sembrano tendere verso uno stesso obiettivo. Alludo ai russi e agli americani». L’obiettivo, spiega de Custine, era quello di spartirsi grandi porzioni del mondo e influenzare politicamente e militarmente grandi spazi. Tutto questo fu reso possibile anche perché le potenze europee avevano lo sguardo altrove.  Se de Tocqueville pensava a un comune destino di crescita per America e Russia, de Custine guardava a Mosca come a una capitale di barbari, proprio a causa dei suoi pregiudizi. Che non erano pochi.

Il francese descrisse «una sporcizia nascosta e una sordida negligenza» nei russi più eleganti. L’arte gli sembrava «infantile e decrepita», compiendo l’errore di compararla all’architettura italiana. Colpa dei mongoli, che della Russia furono padroni per più di due secoli, sostiene. E ancora: i vertici politici appartenevano a un ceto sociale ambizioso e volgare. I miglioramenti, che pur c’erano, li considerava conseguenza di ciò che aveva fatto nel mondo «l’italiano» (chiamava così Napoleone Bonaparte). In realtà non riusciva bene a focalizzare l’ondata illuministica francese e i suoi effetti oltre gli Urali.

È comunque un fatto che la diffidenza europea verso i russi era ben fondata. Colpa dei mongoli che all’inizio del 1200 decisero di essere stanziali. Anzi, crearono uno stato nel meridione della Russia chiamato Orda d’Oro. Era una costruzione feudale, formato da vassalli locali che potrebbero essere paragonati alle baronie del Vecchio Continente. I russi, che per decenni videro il dissolvimento delle “loro” istituzioni, riuscirono a cacciare i mongoli, ma questi, con la guida di Tamerlano, ritornarono fondendosi, in parte, con i russi.

I quali però non mollarono. Grazie ai rapporti politici con l’Ucraina, Mosca ridusse le distanze con Bisanzio, con la Polonia, con la Svezia e i Paesi del Baltico. La conversione ortodossa fece il resto. Nel 1380 i mongoli subirono una pesante batosta e la Russia, pur con controversie tra i suoi notabili, «divenne» spiega Sergio Romano «uno stato destinato a diventare una grande potenza unitaria sin dal regno di Ivan III» il cui avvento decretò la fine del Medioevo russo. La forma politica, scrive ancora l’autore del libro, era un’autocrazia, «un carattere distintivo del potere».

Ivan il Terribile

La diffidenza europea però non cessò. Ivan III costituì il simbolo di una formidabile svolta. Prima di sposare una russa – e su questo fu intransigente – pretese una fastosa incoronazione. Cominciò così il regno degli zar. Rifacendosi ad alcune profezie, Mosca si considerò “la terza Roma”. A Ivan succedette il figlio, il Gran Duca di Moscovia, che però si fece chiamare Ivan IV, «noto al mondo – precisa Romano – come il Terribile, anche se la parola russa, grosny, aveva allora significati diversi: coraggioso, magnifico, temibile». Il neo zar creò uno stato nello stato, la Opričnina, in pratica un’amministrazione parallela,  interamente soggetta alla sua volontà. Salì al potere anche il terrore. Ivan terribile lo fu davvero: non ci pensava due volte a eliminare amici e parenti. Tra questi ultimi ci fu anche il figlio, colpevole d’avere una mente malata, che poteva tradursi quindi in una minaccia per il padre. Secondo fonti autorevoli, verso i 35 anni «fu colto – per citare Romano – da una diabolica ispirazione e cominciò a trarre piacere dalla vista del sangue e da massacri o decapitazioni di persone che erano note soltanto per le loro virtù». A parte questo si comportò come abile statista e intessé frequenti rapporti con i Paesi dell’Ovest, tra cui l’Inghilterra di Elisabetta. Mercanti occidentali venivano spesso in Russia per rifornirsi di legno e pellicce. Morì nel 1584. Uno storico sostenne che nei suoi resti furono trovate tracce di veleno.

Il cosiddetto “periodo dei torbidi” inizia nel 1613 quando entra in scena il diciassettenne Michail Romanov. La dinastia avrebbe regnato fino al 1917, giorno del massacro, a opera dei bolscevichi di Lenin, dell’intera famiglia. Un massacro lungo anche perché molti proiettili furono “fermati” dai bottoni, dalle medaglie e alle decorazioni appuntati sui vestiti delle vittime. Nessuno si salvò, anche se non smettono di cessare certe leggende su fantomatici sopravvissuti. I Romanov avviarono una forte modernizzazione del Paese, soprattutto con i regni di Pietro il Grande (nel ritratto accanto al titolo) e della Grande Caterina. L’ambiziosissimo Pietro estese il regno nelle terre del Baltico, inglobando Svezia e la Crimea meridionale, strappandola ai Turchi. Quest’ultima mossa garantì alle navi russe il passaggio dal mare di Azov al Mar Nero.

Se queste mosse erano politico-militari, l’iniziativa più originale – e forse più importante per la popolazione delle città e delle campagne – fu quella di formare un’ambasceria “viaggiante” composta di diplomatici, consiglieri di corte, ma non solo. Se si leggono le cronache del tempo, il gruppo comprendeva preti, segretari, interpreti, musici, cantori, cuochi, cocchieri, soldati (e quattro nani, chissà perché) per un totale di 25 persone.

Lo zar visitò fabbriche e cantieri, in primis in Olanda e Inghilterra. Lo zar, che si faceva chiamare Petr Michajlov, era insaziabile nell’assorbire ciò che più era d’avanguardia nell’Occidente europeo. Egli, addirittura, scrive Sergio Romano, frequentò lezioni di anatomia e di botanica, visitò filande, cartiere, musei, botteghe d’artigianato e volle apprendere l’arte delle fortificazioni. Una delle tappe del viaggio dell’Ambasceria fu anche Venezia, ammirata per il suo arsenale. Lo zar avrebbe continuato il suo itinerario didattico salvo che dovette tornare in patria per la ribellione di quattro reggimenti di strelizi (una sorta di milizia militare). Ma in compenso portò a Mosca 800 tecnici stranieri (tra i quali 70 inglesi).

La grande modernizzazione della Russia iniziò con un gesto simbolico: Petr Michajlov ordinò a tutti i suoi connazionali di tagliarsi la barba. Chi non avesse obbedito avrebbe pagato una tassa pesantissima. La svolta comprese anche il regolamento di conti con gli strelizi, già infiacchiti dall’estremo rigore di Patrick Gordon, un generale scozzese al servizio dello zar, che radunò oltre 1700 ribelli e fece impiccare su una forca a forma di croce molti preti, dinanzi alla chiesa di San Basilio, nella Piazza Rossa.

La riforma dello zar assunse vari aspetti, compreso l’abbellimento di numerose città. Fece sorgere nella zona nord del paese San Pietroburgo. S’intromise nelle gerarchie ecclesiastiche: abolì il Patriarcato sostituendolo con un Sinodo, riservando a se stesso la nomina dei vescovi. E molte altre cose: inventò la carta bollata, creò un sistema fiscale nuovo per la riscossione delle imposte, rinnovò l’amministrazione e s’interessò alla macchina fiscale con l’introduzione della nuova moneta, i kopechi. Accanto al Senato, creò una nuova Camera Alta. Insomma fece di tutto perché gli stranieri si accorgessero una buona volta che la Russia era, o stava diventando, uno stato avanzato sotto molti profili. Si mosse con decisione, senza però eliminare l’abitudine di far fuori gli oppositori, con tanta spietatezza. E questo fu l’elemento per il quale gli altri Paesi europei continuarono a pensare che «i russi avevano caratteri incurabilmente asiatici». 

A metà ‘800 lo storico Petr Caadaev scrisse che col viaggio di Pietro «era stato cambiato il corso della storia di una nazione che, a differenza degli altri Paesi europei, non aveva una storia nazionale. La Russia aveva lottato, conquistato nuove terre, vinto e perduto nuove battaglie, ma senza avere coscienza di sé, delle proprie origini e del proprio futuro». Potremmo aggiungere che Mosca si avviava a disegnare un vero e proprio biglietto da visita da fornire alle ambasciate più importanti d’Europa. Caadaev sosteneva che Pietro il grande «aveva imposto alla Russia di essere finalmente europea, di “apprendere” l’Europa come un bambino sui banchi della scuola». Parole che lo resero bersaglio di tutti gli slavofili, i quali reagirono con attacchi, critiche, insulti, e, infine con una punizione che, come annota acutamente Sergio Romano, «con una punizione che anticipa lo stile del regime comunista contro i suoi nemici, decretandolo ufficialmente pazzo».

Caterina II di Russia

Nel processo di modernizzazione della Russia non fu meno importante Caterina II, nata a Stettino, in Pomerania, quindi tedesca. Imparò alla perfezione la lingua russa e a soli 16 anni sposò il Granduca della famiglia Romanov, che diventerà zar col nome di Pietro III. Le sue origini tedesche e la familiarità che aveva con i despoti illuminati che avrebbero governato gli stati europei negli anni seguenti, influenzarono anche le sue letture: D’Alembert, Voltaire, Montesquieu e soprattutto Diderot (gli garantì una vita agiata e comperò l’intera sua biblioteca). Fu esperta lettrice anche di Cesare Beccaria. Comprò molte opere d’arte, molte delle quali confluirono poi nel grande palazzo dell’Ermitage a San Pietroburgo.

Fu Diderot a suggerirle alcune riforme, tra cui quella del sistema giudiziario. Si deve dunque indirettamente a lui la costruzione di scuole e ospedali. Caterina ascoltava attentamente lo scrittore francese, ma non smise di frequentare i nobili, molti dei quali erano fortemente retrogradi e si sarebbero scandalizzati, o forse opposti, al progetto di abolire la servitù della gleba. La zarina si limitò a mitigare il comportamento dei proprietari agricoli nei confronti di persone la cui esistenza non era poi così distante da quella degli schiavi. Ci vorrà più di un secolo a eliminare la servitù della gleba.

Negli anni del regno di Caterina II avvenne un episodio che in sé riassumeva l’irrequietezza di grandi frange sociali e comunque il pericolo che la solidità delle istituzioni non fosse una realtà vera. Nel 1773 un cosacco, Emel’jan Pugacev, veterano della Guerra dei Sette anni, attraversò l’intero paese sostenendo di essere lui il vero zar Pietro. Coagulò attorno a sé molti malumori e riuscì a creare una grossa armata composta da cosacchi, contadini impoveriti dalle tasse imperiali, indigeni appartenenti a svariati gruppi etnici della Russia asiatica (ecco: ancora una volta i russi asiatici erano una spina nel fianco di un paese che voleva volgere lo sguardo a Ovest).

Il caso volle che Pugacev e i suoi malmessi militari si trovarono di fronte uno dei più brillanti ufficiali del tempo, il generale Aleksandr Suvorov (avrebbe poi combattuto in Italia contro i francesi). La sgangherata armata del cosacco fu sbaragliata. Pugacev fu catturato, processato e condannato assieme ai suoi ribelli. Di nuovo la violenza delle punizioni: «Tutti coloro che non perdettero la vita – ci ricorda Sergio Romano – perdettero il naso e furono frustati a sangue con il knout, una frusta nodosa che fu, da allora, il simbolo della barbarie russa». Pugacev doveva essere squartato e decapitato, ma Caterina, in segno di riconoscimento dell’audacia del cosacco, rovesciò la pena: prima fu decapitato e poi squartato». Una curiosità: Pugacev fu riconosciuto come grande poeta grazie al romanzo apparso a puntate in una rivista, a firma di Aleksandr Puskin, intitolato La figlia del capitano.

Sergio Romano ci offre una brillante sintesi degli anni della prima e seconda guerra mondiale, delinea con obiettività figure come Lenin (che nel ’17 lasciò la Germania e portò in Russia il germe del terrore comunista) e come Stalin, non meno sbrigativo di Ivan il Terribile nell’eliminazione fisica degli avversari o supposti tali. Tra mille tormenti e contraddizioni si arriva alla figura di Putin, brillante capo del Kgb. Con l’appoggio al siriano Assad, Putin ha vinto la scommessa mediorientale e se qualcuno, scrive Romano, gli imputasse la montagna di morti dopo la conquista di Aleppo, egli risponderebbe probabilmente che «le guerre, quando si considerano necessarie, non si fanno per testimoniare ma per vincere». Stesse considerazioni se si tiene conto dell’economia: «La Russia non è soltanto una protagonista della politica internazionale, è anche un grande mercato e un grande fornitore di materie prime».

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