Nicola Fano
A duecento anni dalla nascita dello scrittore

Artusi non è uno chef

Il sogno unitario di Pellegrino Artusi che vagheggiava una cucina capace di fondare una nuova identità italiana è completamente svanito. Oggi trionfa la filosofia dello chef: l'importante è impiattare

Almeno di nome, Pellegrino Artusi lo conoscono tutti: nato 200 anni fa, il 4 agosto del 1820, ha dedicato la sua vita all’edificazione di uno straordinario monumento all’identità italiana, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (pubblicato nel 1891). Che è molto, molto di più di un libro di ricette: è un trattato di comportamento. Chiunque l’abbia sfogliato, sa che non c’è in ballo solo il modo di preparare le pietanze, ma anche il modo di mangiarle, di viverle: c’è il prima, il durante e il dopo dell’atto di cibarsi. C’è la cucina, ossia una scienza fondata su aggregazioni di numeri (gli ingredienti e le loro quantità) e c’è il mangiar bene, ossia un’arte che riguarda lo stare insieme, il darsi soddisfazione insieme, il trasformare una necessità fisiologica in uno strumento di piacere. Non basta saper realizzare bene i piatti tradizionali, bisogna trovare il modo giusto per consumarli.

È di grande attualità, ora, il pensiero di Pellegrino Artusi. Lo è per contrappasso rispetto al dilagare di cuochi televisivi i quali cucinano e “impiattano”, ostentando sublime arte e ponderosa filosofia, ma senza mai far riferimento al vivere sociale: la culinaria televisiva, per lo più fatta di gare e sfide, è una pratica ossessiva che promuove l’esaltazione di sé (“lo chef che è in te”, sarebbe a dire il capo) e non si occupa neanche in seconda battuta del come consumare tutto il ben-di-dio che viene cucinato in favore di telecamere. Che fine faranno, quei finti piatti succulenti dopo che si spengono i riflettori? Chi li mangerà, ammesso che qualcuno li consumi? Pura voluttà estetica fine a se stessa. Manierismo, non scienza della cucina. Mentre, lo diceva bene Artusi, la cucina è un fenomeno sociale. Ed è un fenomeno sommamente italiano.

Pellegrino Artusi scrisse il suo capolavoro con un’idea fissa in testa: fare l’Italia; dare un’identità solida e definita agli italiani. Che fossero napoletani o milanesi, veneti o siciliani: Artusi voleva completare l’Unità d’Italia dandogli una sostanza comportamentale. Lo stesso progetto, per intenderci, che aveva Edmondo De Amicis quando, scrivendo Cuore, cercò di sostituire il messale cattolico con un breviario laico che unificasse tutti (proprio tutti) gli italiani. Si trattava, nell’ultimo scorcio dell’Ottocento, di fondare un’identità nuova fatta di miti, abitudini, comportamenti inediti; figurarsi l’esaltazione dei (pochi) spiriti liberi che parteciparono a questo fermento! Non a caso, il sottotitolo del capolavoro di Artusi è “Manuale pratico per le famiglie”. Manuale è una parola chiave: si trattava di fornire nuovi strumenti di vita.

“Nozze di Cana” di Paolo Veronese (part.)

Quando guardo certe trasmissioni televisive oggi di moda, mi vengono in mente i ricettari rinascimentali (nel preziosissimo volume Einaudi L’arte della cucina in Italia curato da Emilio Faccioli ce ne sono di splendide): c’è una famosa ricetta, per esempio, che prevede la preparazione di un “pasticcio di uccelli”. Dice il compilatore cinquecentesco di quella ricetta che, infornato e cotto una sorta di grande pane (senza lievito, tuttavia), occorreva creare un piccolo buco sul fondo per riempire la torta di «uccelli vivi variopinti». Il pasticcio, dunque, era da portare in tavola ben sigillato nella parte superiore, ma ricolmo di uccelletti vivi. E, al primo taglio, ecco che gli uccelli si sarebbero scaraventati fuori tra lo stupore dei commensali. Nessuno chef ha prepara alcunché di simile, oggi. il nostro è uno strano Paese: siamo passati dal Rinascimento alla grande arte dei sarti per finire alla filosofia dei cuochi. Una discesa verso gli abissi della banalità ammantata dalla meraviglia degli stolti; roba dalla quale il nostro Pellegrino Artusi è estraneo.

È tutta una questione di identità tradita. Facciamo un esempio per capirci meglio. È praticamente impossibile, in Francia, trovare un vino autoctono adulterato o un formaggio tipico prodotto con latte rumeno o cinese. Non altrettanto può dirsi di tanti nostri vini di (presunta?) eccellenza che vengono stabilmente arricchiti di polveri chimiche, lievito, zucchero e quant’altro di peggio in barba alle norme; tacendo delle celeberrime mozzarelle o forme di parmigiano prodotte direttamente in Cina per il nostro mercato interno (ma “impiattate” alla perfezione!). In Francia, solo per rimanere all’esempio, l’identità condivisa è un bene indiscutibile: non c’è bisogno di leggi, di doc, dop, igt e altre amenità studiate solo per fornire patenti di genuinità regolarmente tradite. Da noi, invece, sull’identità condivisa, da noi, fa premio il guadagno. Sempre e a qualunque costo. La rivoluzione (mancata) di Pellegrino Artusi lungo il corso dell’Ottocento – e che ha accompagnato la nascita maldestra e incompleta del Regno d’Italia – era proprio contro questo atteggiamento: la tutela dell’identità avrebbe potuto essere un elemento di forza del “popolo italiano”. Peccato che così non sia stato.

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